Tu bishvat: Capodanno degli alberi

L’uomo: un albero capovolto

Rav Scialom Bahbout
Rav Scialom Bahbout
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Ebraismo

Tu bishvat: Capodanno degli alberi

L’uomo: un albero capovolto

Ebraismo
Rav Scialom Bahbout
Rav Scialom Bahbout

La scuola di Shammai e quella di Hillel hanno un’opinione diversa circa la data in cui far cadere il Capodanno degli alberi: il primo di shevat, secondo i primi, il quindici dello stesso mese secondo gli altri, opinione questa accettata come norma.

1. Potenza e atto. Alla base di questa discussione sta non solo una diversa valutazione del momento in cui ha inizio il risveglio della natura dal torpore invernale, ma un diverso approccio al mondo della natura e, di conseguenza, a quello dell’uomo stesso: mentre Shammai ritiene che ogni evento debba essere analizzato e giudicato per ciò che è “in potenza”, Hillel pone l’accento su ciò che si può osservare “in atto”, su ciò che è in qualche modo misurabile. Secondo Shammai il Capodanno degli alberi va anticipato perché le prime gemme sono già pronte a spuntare due settimane prima del momento in cui le osserviamo; per Hillel conta invece ciò che è visibile e osservabile.

2. L’uomo è come un albero del campo (Deut. 20:19): questa frase permette di dire che, quando analizziamo le azioni dell’uomo, dobbiamo applicare lo stesso sistema di valutazione usato per gli alberi: possono essere oggetto di giudizio solo le azioni e non i pensieri. Giocando sulle ambiguità del testo biblico, il Midràsh attribuisce alla Terra la colpa di non aver obbedito a una precisa parola divina: il Signore aveva ordinato alla Terra di produrre ‘etz perì, cioè alberi frutto in cui il sapore dell’albero si identificasse con quello del frutto. La Terra si limitò invece a produrre ‘etz ‘osè perì, cioè alberi che fanno frutto, mancanti dell’identità tra albero e frutto voluta da Dio: questa disobbedienza dell’albero spiega la maledizione che colpì la Terra assieme a quella dell’uomo. L’albero era stato creato per costituire esso stesso un fine a se stesso (il sapore dell’albero deve essere uguale a quello del frutto), ma esso rifiutò questa sua condizione e preferì divenire solo un mezzo per la produzione dei frutti, limitando così quelle che erano le sue potenzialità. L’uomo, come l’albero, deve far sì che ci sia una identità tra mezzi e fini e ricordarsi che il fine non giustifica i mezzi, perché altrimenti l’uomo perde una parte rilevante delle sue potenzialità.

Il rapporto esistente tra uomo e albero può essere interpretato però in maniera antitetica. Scrive infatti il Maharal di Praga: “l’uomo è chiamato albero del campo, ma in verità è un albero capovolto, perché l’albero ha le radici in basso, fissate in terra, mentre l’uomo ha le sue radici in alto: la sua radice è l’anima che è di origine celeste… Perché l’uomo è un albero capovolto? L’albero ha radici in basso perché deriva la sua vitalità dalla terra, mentre la vitalità dell’anima umana deriva dal Cielo … e questo è il significato del precetto dei tefillin: essi piantano l’uomo nel Signore.”
Se uniamo queste due affermazioni possiamo dire che l’uomo ha le sue radici in terra e in cielo. L’esperienza d’Israele può essere rappresentata in sintesi dalla scala di Giacobbe che era fissa per terra, ma arrivava fino al cielo: tradurre in atto (in terra) ciò che viene rivelato in potenza (in cielo) è compito di ogni ebreo.

Il giorno della memoria, che è una data del calendario non ebraico e che ci trova sempre coinvolti, cade quasi sempre nei giorni che precedono il Capodanno degli alberi. Abbiamo detto che l’uomo è come un albero del campo. Molti alberi sono stati sradicati nei campi di concentramento e nei ghetti durante la Shoà: la generazione che è sopravvissuta e noi che ne siamo gli eredi abbiamo il dovere di piantare nuovamente noi stessi nella casa del Signore: Coloro che sono piantati nella casa del Signore, nei cortili del nostro Dio fioriranno (Salmo 92).

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