Ci risiamo. L’assassino torna sempre sul luogo del delitto e non possono fare eccezione i purgatori della storia ebraica, i colonizzatori culturali che pretendono non vi sia alcun legame storico tra gli ebrei e la Palestina. Ci riferiamo alla risoluzione dell’UNESCO presentata dalla union sacrée islamica di Algeria, Egitto, Marocco, Oman, Qatar e Sudan, noti stati democratici e rispettosi dei diritti umani, giovedì scorso e già presentata per la prima volta il 14 aprile del 2015.
Nella risoluzione confezionata dagli uffici dell’Autorità Palestinese, è affermato, oltre al minimo ordinario imputato a Israele (aggressioni e violazioni varie) che la tomba di Rachele a Betlemme e quella dei patriarchi (Abramo, Isacco e Giacobbe) a Hebron sono siti “palestinesi”. Il Muro del Pianto (il Kotel) viene definito “piazza del muro occidentale”. L’accusa cospirazionista secondo la quale Israele stava scavando finite tombe ebraiche nei cimiteri musulmani, presente nella precedente risoluzione, è stata invece cassata. Evidentemente non hanno trovato prove da esibire.
Nella versione presentata ad aprile, il Monte del Tempio, il luogo più sacro per gli ebrei, è definito in lingua araba al-Haram al-sharif (il nobile santuario) in ossequio ai desiderata musulmani di imprimere il loro suggello sul luogo espropriandolo di qualsiasi legame con l’ebraismo. Si tratta di un vecchio cavallo di battaglia dell’OLP, quello di negare che sul monte sia mai sorto il Tempio di Salomone. Per Arafat, se esso era mai davvero esistito, doveva trovarsi da qualche altre parte, Nablus forse…
La colonizzazione arabo-musulmana della Palestina non si è fermata al VII secolo ma dura ancora ai nostri giorni con il tentativo di estromettere completamente Israele dalla sua storia e dal proprio retaggio plurimillenario. D’altronde, la Carta di Hamas lo specifica chiaramente all’articolo 11 dove è scritto, “Il movimento di Resistenza Islamica ritiene che la terra della Palestina sia un Waqf islamico (affido inalienabile) consacrato alle future generazioni musulmane fino al giorno del Giudizio”.
Il giorno del Giudizio non si sa quando avrà luogo, nel frattempo l’UNESCO provvede a fornire il proprio seguendo l’interpretazione musulmana rigorista per la quale la Palestina, Israele compreso, è Dār al-Islām (Casa dell’Islam). Secondo questa concezione gli ebrei, al limite, possono essere solo dei soggetti sottoposti alla dhimmitudine, la condizione di cittadini di secondo rango a cui è garantito il permesso di soggiornare in un paese islamico a patto di accettarne tutte le limitazioni conseguenti.
La risoluzione UNESCO recepisce perfettamente questa esigenza islamica, la fa propria e la trasforma in ordine del giorno. Nessuna meraviglia. L’UNESCO è il braccio culturale dell’ONU l’istituzione occidentale più sbilanciata a sfavore di Israele dagli anni ’70 in poi, l’epoca in cui i paesi arabi, in combutta con l’allora Unione Sovietica e gli stati non allineati, imposero all’organizzazione l’egemonia della loro agenda filopalestinese e antiisraeliana.
Cambiare i nomi dei luoghi è una delle caratteristiche principali dei conquistatori. Lo scopo è ad un tempo appropriativo ed espropriativo, affermare la propria egemonia e cancellare la storia e quindi la memoria di chi vi aveva vissuto precedentemente. Quando nel 130 AD, l’imperatore Adriano rinominò la Giudea, Palestina e cambiò il nome di Gerusalemme in Aelia Capitolina lo fece con l’intento punitivo di sradicare l’appartenenza culturale del popolo ebraico alla sua terra e alla sua storia.
Lo stesso intento è quello presente nella risoluzione ONU votata da ventiquattro paesi (l’Algeria, il Bangladesh, il Brazile, il Chad, la Cina, la Repubblica Dominicana l’Egitto, l’Iran, il Libano, la Malesia, il Marocco, Le Mauritius, il Mexico, il Mozambico, il Nicaragua, la Nigeria, l’Oman, il Pakistan, il Qatar, la Russia, il Senegal, il Sud Africa, il Sudan e il Vietnam).
Nove di meno rispetto a quelli che appoggiarono la risoluzione il 14 aprile. Unico nota positiva di questa pagina nera che certifica ancora una volta il potere pervasivo della propaganda palestinese e la solerzia dei suoi notai.