Bernardo Caprotti, fondatore di Esselunga, è venuto a mancare qualche giorno fa. Dall’esperienza maturata negli Stati Uniti al successo in Italia, la sua vita di imprenditore è stata caratterizzata dall’aver capito con molto anticipo il potenziale e il futuro successo della grande distribuzione. Ma se la sua capacità imprenditoriale è sotto gli occhi di tutti, quello che lo è un po’ meno è la sua vita privata. Nessuno come lui, infatti, ha contributo alla realizzazione del Memoriale della Shoah a Milano.
Il vicepresidente della Fondazione per il Memoriale, Roberto Jarach, disse al riguardo: “Senza la generosità di Bernardo Caprotti non avremmo cominciato quest’opera; lui ci ha aiutato a raggiungere il 30 per cento della cifra iniziale”.
Era ebreo? No. Aveva parenti ebrei? Nemmeno.
Allora cosa l’ha spinto a donare una somma cospicua per ricordare una delle pagine più tragiche della storia del popolo ebraico?
Per capire questa storia bisogna tornare all’infanzia del piccolo Bernardo, quando nella dimora Caprotti molti amici ebrei del padre, imprenditore nel campo del cotone, erano di casa.
Agenti, commercianti e imprenditori, tutti di religione ebraica che hanno subito sulla propria pelle gli orrori della Shoah. Così come padri e madri dei coetanei di Bernardo che a metà degli Anni 40 partivano dal binario 21 della stazione Centrale di Milano alla volta dei campi di sterminio. Un binario sotterraneo nascosto alla vista degli altri passeggeri, ma ben visibile agli occhi del futuro papà di Esselunga, per cui fu decisivo l’incontro con Liliana Segre, che fu una dei 25 bambini sopravvissuti fra i 776 piccoli italiani deportati ad Auschwitz, con cui trascorse molti pomeriggi a chiacchierare, scoprendo che entrambi i padri facevano parte dei “ragazzi del 99” e che si conoscevano, perché operavano nel campo del cotone. Una sola, ma drammatica differenza c’era fra i due genitori: da quel maledetto binario, Caprotti senior tornò a casa, il suo collega Segre no.
La Segre ha espresso tutto il suo dispiacere per la perdita di quello che è stato più di un amico:
Sono tristissima. È un grande dolore. Per me è come se fosse mancato un fratello. Bernardo Caprotti è stato un grande amico. Era un uomo duro ma molto deciso nelle sue cose e quando prendeva a cuore una situazione era generosissimo. Ho una profonda gratitudine nei confronti di Caprotti. È stato il più grande amico del Memoriale della Shoah. Ne aveva compreso l’importanza per Milano e ha contribuito in modo importante alla sua rinascita. Non era soltanto un imprenditore, ci sono tanti enti che hanno ricevuto un aiuto da lui. Era rimasto colpito dalla mia storia e voleva fare qualcosa per contribuire a riparare i torti subiti. Senza di lui non avremmo aperto il Memoriale. Nel libro “Falce e carrello” aveva voluto mettere anche una foto mia e del mio papà.
Per capire l’umanità e l’umiltà di Bernardo Caprotti basta la frase da lui pronunciata dopo aver saputo che una delle sette stanze del Memoriale gli era stata intitolata: “È una sorpresa, non me lo immaginavo”.