Già il’11 Gennaio scorso, ma lo abbiamo saputo solo a Marzo, il Re Abdallah di Giordania, a Washington, ha dichiarato che la Turchia sta deliberatamente esportando i terroristi islamici in Europa, dopo averli “fabbricati” in Siria e sul suo territorio nazionale. Il Re giordano non è stato ricevuto da Barack Obama, in quella occasione, ma ha riaffermato chiaramente l’impegno di Ankara a sostegno del Daesh/Isis sia in Siria che in Iraq oltre che nell’export del terrorismo islamista in Europa, e lo ha fatto davanti ad una platea di senatori USA e di influenti giornalisti. Per il sovrano di Amman, la Turchia vuole una soluzione “islamista e radicale” per tutta la regione mediorientale. La questione turca è quindi, e non solo sulla base delle affermazioni del re hashemita, la vera chiave di volta della strategia antijihadista nel Grande Medio Oriente.
D’altra parte, è proprio Ankara il principale fornitore di armi e di sistemi d’arma per il Daesh/Isis, e non certo da oggi. La Turchia agisce in particolare tramite ONG, Organizzazioni Non Governative, tutte controllate dal Servizio Segreto MIT, e i rifornimenti si svolgono via terra o via Eufrate, mescolando attentamente aiuti umanitari veri e propri con rifornimenti d’armi. Una di queste ONG è la Fondazione Besar, diretta da un uomo del MIT, D. Sanli, ed essa ha costituito, nell’anno 2015, oltre 50 convogli per rifornire di armi e vettovaglie i jihadisti turcomanni di Bayirbukac e Kiziltepe, a circa 250 km. da Damasco, da sola o in collaborazione con un’altra ONG turca, la Yilikter Foundation for Human Rights and Freedom.
I rifornimenti avvenivano tramite alcuni checkpoint sul confine turco-siriano o, lo abbiamo detto, attraverso le vie d’acqua, in particolare tramite il fiume Eufrate. Negli ultimi due mesi le armi inviate da Ankara all’Isis sono soprattutto i missili anticarro TOW, i lanciagranate RPG-7, molti mitragliatori M-60 da 7,62 mm., granate a lancio manuale, numerosi strumenti di comunicazione tattica. Poi, la Turchia ha rifornito il Daesh/Isis di 2500 tonnellate di nitrato di ammonio, 450 tonnellate di nitrato di potassio, 75 tonn. di polvere di alluminio, grandi quantità di nitrato di sodio, glicerina e acido nitrico, almeno secondo le informatissime fonti dell’intelligence militare russa.
Sono tutti componenti primari degli esplosivi, come è noto.
I fondi versati alla Besar provengono apparentemente da finanziatori privati ma, in effetti, sono denari appartenenti ad una contabilità speciale del MIT.
La ONG Yilikter ha organizzato, sempre nell’arco del 2015, oltre 25 convogli all’interno della Siria, ed essi sono finanziati da conti turchi, mediorientali e europei gestiti ad Ankara dalle banche Kuveyt Turk e Vakif. Una delle ONG turche implicate nelle operazioni di sostegno al Daesh/Isis è inoltre la nota IHH, la “Fondazione per la difesa dei diritti umani e delle libertà fondamentali”, esplicitamente sostenuta dal governo di Ankara.
Dall’inizio delle ostilità in Siria, nel 2011, l’IHH ha inviato in Siria 7500 veicoli da trasporto con armi “coperte” dai tradizionali aiuti militari. L’IHH riceve fondi dallo stato turco e da numerosi finanziatori privati, denari che passano attraverso le banche Ziraat e la ormai consueta Vakif. Per passare le armi all’Isis, gli agenti segreti turchi gestiscono i depositi militari delle città di confine di Bukulmez e Sansarin, depositi dai quali traggono le armi da nascondere e mescolare con gli aiuti umanitari.
Le armi turche per l’Isis attraversano solitamente il varco di frontiera di Cilvegoezu, 530 km. a sud-est di Ankara. Il servizio turco sostiene non solo i jihadisti “turcomanni” operanti al confine occidentale, responsabili fra l’altro dell’abbattimento del Sukhoi-24 russo lo scorso gennaio e dell’elicottero di soccorso, ma anche Jabhat al Sham, il “Fronte del Levante”, un gruppo jihadista che opera nell’area di Aleppo; e gli altri numerosi movimenti politico-militari che entrano ed escono rapidamente dal grande rassemblement del Fronte di Al Nusra, la “sezione” siriana di Al Qaeda.
Le società commerciali private turche legate al governo acquistano poi le merci prodotte nella Zona Economica Libera di Mersin, sulla costa meridionale turca, e le spediscono all’Isis. Per evitare problemi ai confini, i prodotti militari destinati al Daesh/Isis vengono inviati ad aziende registrate in Giordania o in Iraq, con documenti in cui vi è scritto “transito attraverso la Repubblica Araba Siriana” nella casella riguardante il destinatario. Le stazioni doganali turche interessate sono quelle di Antalya, Gaziantep e Mersin, poi le merci destinate al “califfato” attraversano i valichi di Cilvegoezu e di Oencuepnar fino a raggiungere le aree controllate dall’Isis.
Il progetto di Recep Tayyp Erdogan è quindi chiaro: tramite l’Isis egli intende balcanizzare Iraq, Siria, il Libano e tutta la zona fino al Caucaso, per proiettare la potenza turca dai confini dell’Anatolia fino all’Asia Centrale. E’ la vecchia tentazione islamista- neottomana di tipo panturanico, che riprende a ritroso l’arrivo delle tribù turche dalla Siberia Occidentale verso il Mediterraneo. Naturalmente, ciò presuppone la negazione di ogni autonomia ai curdi, quelli che la stampa turca definiva solo “i turchi delle montagne”.
E, si aggiunga, questa è una prospettiva del tutto estranea alla strategia della NATO, di cui peraltro la Turchia rappresenta la seconda Forza Armata dopo gli USA.
Cosa ha da dire su questo argomento il Segretario Generale dell’Alleanza, il giovane leader socialdemocratico norvegese Stoltenberg, posto in quella carica nel 2014?
Lui, nato nel 1969, riesce a ricordarsi di quando il socialdemocratico tedesco Helmut Schmidt “congelò”, in accordo con il Presidente francese conservatore Giscard d’Estaing, le cariche militari italiane nella NATO, nella fase dell’entrata del PCI nella coalizione di governo?
Pensa egli che il jihad “della spada” sia solo un modo per “abbattere il tiranno Assad” e portare in Siria la famosa democrazia parlamentare bipartitica, che va tanto di moda in Occidente?
Oppure i pifferai di Hamelin che sostengono il “califfato” immaginano che i jihadisti obbediranno come agnellini agli ordini della Turchia o di altri Paesi che li sostengono, quando avranno raggiunto i loro successi sul terreno?
Per Ankara, quindi, gli obiettivi, tramite il sostegno al Daesh/Isis, sono quelli di un intervento diretto sul territorio siriano, con la probabile costituzione di un grande “cantone sunnita” come area sottomessa alla Turchia. Inoltre, Ankara non vuole fino in fondo la grande area antiiraniana che l’Arabia Saudita progetta in Medio Oriente, o almeno non la desidera se non come parte del suo progetto panturco che va dal Mediterraneo all’Asia Centrale fino allo Xingkiang, l’area turcomanna interna alla Cina comunista. Né peraltro il governo turco vuole aderire del tutto alla geopolitica saudita nell’area, che lo costringerebbe ad una sottomissione a Riyadh che lo allontanerebbe dalla UE e dagli USA.
Quindi, l’utilizzo del Daesh/Isis da parte di Ankara presuppone l’idea di un “incendio controllato” in Siria e Iraq, che la Turchia si illude di indirizzare sia contro i curdi sia in direzione della futura zona di espansione iraniana, che l’abbattimento della Siria alawita bloccherebbe definitivamente. I governanti turchi operano quindi, oggi, per mantenere la loro leadership nell’area, creare un corridoio verso l’Asia Centrale, prendersi l’area sunnita a nord del mondo degli Al Saud e condizionare, così, con la loro nuova profondità strategica, sia gli USA che l’imbelle e stupida UE. Né, peraltro, la Turchia desidera abbandonare del tutto i suoi rapporti proprio con gli USA, malgrado lo scarso utilizzo permesso della base aerea di Incirlik per le azioni anti-Isis e le azioni di facciata dell’esercito turco contro il califfato di Al Baghdadi.
Controllare e manipolare l’emigrazione verso l’UE, poi, permette ad Ankara di aprire e chiudere i rubinetti dell’Unione, sia per una sua futura entrata nell’Europa a 28, sia come ricatto finanziario e politico nei confronti dei capponi non di Renzo, ma di Bruxelles. Peraltro, il sostegno all’Isis da parte di Erdogan consente di sostenere la fazione elettorale islamista alla base dell’AKP, il partito di governo, contro le ancor vaste zone “laiche” e memori di Ataturk dell’elettorato e delle classi dirigenti turche.
Il processo contro Ergenekon, la rete militare neogolpista e laicista ha finito col condannare, nel 2013, ben 275 persone, tra cui il capo di Stato Maggiore Ilker Basbug o il capo del “Partito dei lavoratori” Dogu Perincek. Ovvio è che, se poi venisse fondato uno Stato Autonomo Curdo in Siria ed Iraq, la massa dei curdi in Turchia si sentirebbe autorizzata a fare lo stesso. Si tratta del 10% del totale della popolazione turca, e sono quasi tutti distribuiti nelle province orientali, a stretto contatto con i loro connazionali siriani. Ankara mantiene quindi un contatto con gli USA (e non con l’Alleanza Atlantica, di cui poco si interessa) che sono storici alleati dei gruppi curdi in Siria (che ormai simpatizzano di più per Mosca) per evitare che gli americani possano spingere verso lo Stato Autonomo Curdo, ed in quel caso la Turchia potrebbe ancora usare, come ricatto, i suoi buoni rapporti con l’Isis.
Peraltro, Ankara guarda con preoccupazione alla crisi in Ucraina e nel Mar Nero, che è uno dei suoi punti strategici primari. Se la tensione dovesse salire, in questo quadrante, la Turchia vedrebbe realizzarsi due scenari per essa negativi: la proiezione di potenza russa (e rumena) nel Mar Nero e la possibilità, da parte di Mosca, di tenere sotto scacco sia il territorio turco che le sue vie commerciali verso l’Est, che sono la chiave della strategia panturanica di Ankara. Né, peraltro, la Turchia desidera mettersi completamente contro la Russia, dalla quale riceve gran parte delle forniture di idrocarburi, che sono comunque destinate a crescere, entro il 2020, del doppio per quanto riguarda il petrolio e di quattro volte per quel che concerne il gas naturale. E l’unica fonte razionale di rifornimento è appunto l’area russa, che certamente farà valere il suo peso se la Turchia premesse ancora di più il pedale jihadista nella crisi siriana.
Ecco, se la UE riuscisse a pensare strategicamente, queste potrebbero essere le questioni sul tappeto nel quadrante sirio-iraqeno.