La probabile guerra fra Iran e Arabia Saudita

Giancarlo Elia Valori
Giancarlo Elia Valori
-
Medio Oriente

La probabile guerra fra Iran e Arabia Saudita

petrolio

Per capire bene cosa potrebbe accadere in futuro tra la Repubblica sciita dell’Iran e il caposaldo wahabita e sunnita rappresentato dall’Arabia Saudita, occorre esaminare una vasta serie di dati e condizioni geoeconomiche, politiche, ideologiche, strategiche e militari. Entrambi gli attori geopolitici, Teheran e Riyadh, possono apparire irrazionali agli osservatori e ai decisori occidentali, ma sono abituati ad analizzare la loro equazione strategica fino ai più piccoli particolari.

Intanto, vediamo la questione dei prezzi petroliferi e del loro significato geopolitico.
Il prezzo del barile intorno o al di sotto dei 30 Usd dovrebbe, in linea di massima, aumentare lentamente, anche se l’Arabia Saudita ha orientato il resto dell’OPEC sunnita verso la sovrapproduzione temporanea, per abbassare ulteriormente i prezzi e danneggiare l’Iran. E la Russia, un piccolo favore simultaneo agli amici americani, che è però un atto di amicizia molto ambiguo: al di sotto dei 30 Usd/barile, il petrolio da scisti USA è del tutto antieconomico, e già moltissime (si dice il 40%) delle aziende petrolifere dello “shale oil” USA sono già ai limiti della bancarotta.

Ma nessuno dei membri OPEC né, tantomeno, l’industria dello shale oil statunitense possono continuare a lungo questo ritmo di sovrapompaggio degli impianti, che diminuisce il tempo di vita dei pozzi e crea, in una condizione di scarsa crescita economica dei consumatori di idrocarburi, immani costi di stoccaggio del greggio. Gli USA hanno accettato questa politica solo per danneggiare la Federazione Russa, che ha una economia ancora legata al sistema petrolifero.

Se andiamo a vedere i dati, l’Arabia Saudita ha raggiunto nei mesi scorsi il livello record di estrazione: 10,24 milioni di barili/giorno. E, più aumenterà la crisi economica, più Riyadh avrà interesse a pompare al massimo, per avere la liquidità immediata che le serve.
Perfino l’Iraq, il Kuwait e, caso strano, la Libia hanno aumentato il ritmo delle loro estrazioni giornaliere. Sono la nuova area, a parte l’Iraq dove il petrolio è in zone curde, della egemonia saudita, il condizionamento alla sovrapproduzione petrolifera per distruggere i concorrenti sciiti e convincere gli USA a lasciar perdere l’estrazione dello “shale”.

In termini geopolitici, il mondo sunnita cerca di inondare i mercati occidentali con il suo petrolio che va a sostituire quello iraniano e delle aree sciite (Iraq compreso).
Nella guerra al ribasso del barile di petrolio, vince chi estromette l’avversario dai mercati finali, e questo, naturalmente, tende a danneggiare di più i Paesi maggiormente dipendenti dai flussi di idrocarburi. In ogni caso, tutti i paesi produttori OPEC non riescono a mantenere la pace sociale interna, le loro spese militari e le loro riserve di valute “forti” con i prezzi al barile così bassi.

La Nigeria per esempio ha bisogno, per guadagnare un margine accettabile, di un barile a 122 Usd, il Venezuela, che ormai ha una inflazione “weimariana”, per sopravvivere dovrebbe prezzare il barile a 117, mentre la Repubblica sciita iraniana dovrebbe avere addirittura il barile a 130 Usd per coprire i costi e raggiungere un margine medio di ricavi tali da permettere l’allocazione di mercato dei nuovi capitali nel settore petrolifero interno. Tanto maggiore il danno da parte dei sunniti, tanto maggiore la presenza iraniana nelle proxy wars contro i sauditi e i loro alleati. Ci penseranno, naturalmente, gli investitori occidentali, ora che le sanzioni a Teheran sono state tolte, e proprio in questi giorni.

Ma l’Iran avrà sempre un cliente petrolifero primario, la Cina, mentre tutti gli analisti prevedono una crescita, tra quest’anno e il prossimo, dell’estrazione iraniana. Se la Cina è e rimarrà il primo cliente del petrolio sciita e se l’Azerbaigian, dove l’estrazione costa meno che altrove, saranno collegati a Teheran, il danno dell’OPEC all’Iran sarà limitato.
Si tratta di 3.133 milioni di barili/giorno iraniani quest’anno, ma il governo, per sfruttare al meglio la nuova situazione post-sanzionista, intende arrivare a 550.000 bpd, con un programma di espansione della produzione giornaliera fino a quattro-sette milioni di bpd entro il 2020. Ovvero: Teheran vuole prendersi la quasi totalità dei mercati occidentali degli Al Saud.

Lotta tra i due contendenti quindi per mantenere i nuovi mercati raggiunti con l’abbassamento dei prezzi, lotta poi a chi riesce a tenere gli equilibri interni in una fase di restrizione di bilancio, lotta infine a chi riesce a mantenere elevate le spese militari e, soprattutto, guerra a chi riesce a infilare l’avversario regionale nel maggior numero di proxy wars, che esauriscono le forze, consumano risorse e costringono i partecipanti a vendere il petrolio a qualunque prezzo, per “fare cassa”.

Per capire meglio questa problematica, l’Algeria dovrebbe vendere il suo barile a 130,5 Usd, il Kuwait a 54, il Qatar a 60, l’Arabia saudita, lo abbiamo visto, a 106, la Russia a 100. Nessuno oggi guadagna davvero dal petrolio, e tutti sono fortemente danneggiati dai prezzi bassi. Anche noi consumatori. Mosca gioca la sua partita in Siria anche per questo.
Non vuole tagliare la produzione perché ha bisogno di liquidità, ma i suoi pozzi stanno “invecchiando” rapidamente. I depositi siberiani calano le loro estrazioni sin dal 2007, mentre la Russia ha bisogno di capitali per giocare la carta del petrolio artico.
Quindi: i sunniti hanno bisogno che la produzione USA cali e che il petrolio estratto dall’Iran e dai suoi alleati sciiti non possa raggiungere a costo ragionevole, in grande quantità e concorrenziale con il petrolio sunnita, i mercati occidentali. Guarda caso, è proprio l’asse mesopotamico dove è presente la Siria il principale corridoio del petrolio sciita e, per molti riguardi, di quello russo.

Quindi, la guerra per procura tra il Daesh/Isis e l’Esercito Arabo Siriano degli Assad, sostenuto dalle forze russe, durerà fino a quando il mercato petrolifero saudita non si stabilizzerà ad un prezzo accettabile, che dovrebbe essere, secondo i più informati analisti, di 80-90 Usd al barile. Il problema è che Riyadh, tramite le guerre regionali, vuole evitare che il petrolio iraniano possa beneficiare dello stesso aumento di prezzo. Teheran, invece, vuole “tenere” la Siria alawita per garantirsi il controllo autonomo di un canale di passaggio del petrolio e del gas che non tocchi le aree a dominio sunnita. I territori oggi in guerra sono e saranno sempre di più utilizzati come rubinetti per aprire o chiudere il passaggio dei propri o degli altrui petroli.

Ma questo è l’antefatto di uno scontro diretto tra sunniti e sciiti? Vediamo.
Riyadh, proprio ora che l’Iran sta rientrando nella scena economica mondiale, vuole ovviamente evitare l’espansione sciita nel Grande Medio Oriente. La rivolta nel Bahrein del 2011, nella quale una maggioranza sciita è stata brutalmente repressa dai sunniti al potere con il sostegno dei sauditi, è stato probabilmente l’inizio del confronto finale tra Iran e Arabia Saudita per l’egemonia in tutta l’area mediorientale.

La rivolta sciita nel Regno del 2014 è stata poi vista come la prova generale della probabile secessione sciita nell’universo saudita, dove l’area sciita di Al Hasa fu conquistata dalle forze di sicurezza di Riyadh solo nel 1913; mentre gli sciiti intorno a Medina furono eliminati tardi, nel 1926. Nell’Hejaz vi sono ancora aree di resistenza al fondamentalismo wahabita dei sauditi, mentre nella provincia orientale di Al Islahiyyah si trovano da tempo gruppi tradizionalisti, in buoni rapporti con gli sciiti, che potrebbero unificare l’opposizione al regno degli Al Saud, che non è mai del tutto riuscito a egemonizzare l’area meridionale della penisola arabica. L’odio di Osama Bin Laden per la famiglia reale veniva da lontano, dall’origine della sua famiglia nell’hadramaut al confine con lo Yemen, un’area che non si è mai sottomessa davvero agli Al Saud.

In altri termini, l’Iran, ma anche il regno saudita, si trovano a dover gestire minoranze o maggioranze sciite o sunnite in un contesto in cui, in tutto il Medio Oriente, gli Stati si stanno di fatto disintegrando o, comunque, riescono con fatica a gestire delle serie minacce alla loro stessa sopravvivenza. E’ ovvio che, in questo contesto, ognuno dei due contendenti maggiori giochi a sfasciare l’altro tramite la destabilizzazione prima delle periferie di entrambe le aree di influenza, poi, magari, di colpire, quando il processo di sfarinamento periferico sarà concluso, il centro del potere avversario. Ma l’Arabia Saudita è e sarà sempre un paese a maggioranza sunnita, così come l’Iran sarà sempre una nazione dove il “partito di Alì” sarà quasi totalmente presente. Convertire l’avversario? E’ probabile. In Indonesia i rifugiati sciiti sono obbligati a convertirsi alla linea sunnita dell’Islam prima di ogni altro sostegno economico, mentre lo stesso Iran è stato convertito al “partito di Alì”, la shi’a, solo con la dinastia savafide, nel 1501, la stessa dinastia che ricostruì l’Iran come stato indipendente.

Prima, lo sciismo era diffuso anche nelle zone in cui era composto l’universo iranico dentro l’impero ottomano, quali il Daghestan e le altre aree caucasiche, che sono oggi un caposaldo del jihad sunnita dentro l’area di influenza russa. In quella fase savafide si convertirono alla shi’a anche l’Azerbaigian e gran parte dell’Iraq, con la riconquista sciita di Baghdad nel 1624 che causò la distruzione della maggioranza sunnita dei suoi abitanti.
La rapidità delle conversioni al sunnismo è poi oggi notevole, anche nello stesso Iran; ed è ovvio che le autorità di Teheran vedano questo fenomeno come un pericolo esiziale. Il salafismo di origine wahabita e quindi saudita viene usato poi, in Iran, come strumento di rivolta contro il regime degli Ayatollah. L’espansione degli Hezbollah legati alle “Guardie della Rivoluzione” iraniana dal Libano verso la Giordania, inoltre, è un ulteriore elemento di destabilizzazione dell’universo sunnita.

Sono diminuite da anni le dichiarazioni degli Ayatollah, a Teheran, sul panislamismo che deve informare la politica iraniana, aumentano invece le accuse ai sunniti, a tutti i sunniti, di essere all’origine del jihad globale, che è diretto, secondo i capi iraniani, sia contro gli occidentali sia contro i seguaci dell’Imam Alì. E’ un gioco a somma zero che non prevede un punto di equilibrio, salvo la possibile distruzione delle zone di transito del petrolio di entrambi i filoni islamici, ed è solo per questo che la guerra tra le due tradizioni maomettane ha dei momenti di stasi. In altre aree, si osserva una espansione delle conversioni alla linea sciita in funzione di lotta politica contro i regimi autoritari locali: nel già citato Bahrein, in Egitto, in Giordania, nelle emigrazioni islamiche o nelle antiche comunità maomettane in Canada o negli Stati Uniti. Sia nel caso saudita che in quello iraniano, l’espansione delle conversioni all’uno o all’altro filone islamico è uno strumento diretto di egemonia. Se questo accade all’interno dell’area mediorientale, le conversioni sciite o sunnite portano direttamente alla creazione di minoranze organizzate prima e poi alla lotta armata, come in Yemen o nella stessa Siria attuale.

Ma qual’è il potenziale militare dell’uno o dell’altro filone dell’interpretazione coranica?
L’Arabia Saudita ha aumentato le proprie spese militari del 14% nell’anno 2014, malgrado le restrizioni di bilancio. Oltre il 10% del PIL di Riyadh. Se il ritmo del riarmo saudita viene mantenuto, e in mancanza di novità sui mercati petroliferi, la spesa militare di Riyadh potrebbe generare una grave recessione economica del Regno entro il 2017.
Ecco l’utilità, per gli avversari della dinastia saudita, di innescare una piccola destabilizzazione a sud e ad est e di mantenere le “piccole guerre” in Yemen, nell’area sunnita della Siria, prossimamente in Iraq o prossimamente nelle aree sciite pakistane.
L’Iran ha speso, nell’anno 2015, 10 miliardi di Usd, di cui il 60% è stato allocato presso le Guardie della Rivoluzione.  Data la specifica situazione dell’economia di Teheran e la crisi economica indotta da un lungo regime sanzionista, la crescita delle spese militari sarà contenuta intorno a un 10-15%.

Se la tensione tra Iran e Arabia Saudita arriverà allo scontro aperto, sarà la fine del progetto russo di egemonia regionale in sostituzione della “fuga” da parte degli USA, il che potrebbe ricreare un nesso strategico tra Washington e Riyadh in funzione di una nuova, più difficile, regionalizzazione di Teheran dopo la fine delle sanzioni.
Israele, in questo contesto, mantiene rapporti coperti, riservatissimi ma fruttuosi con entrambi i contendenti islamici.

Ma occorre ricordare che nessuno dei due Paesi islamici ha interesse a rinunciare al progetto di “eliminazione” dello Stato Ebraico ed essi potrebbero creare, in una fase futura dello scontro, il casus belli per un accerchiamento di Israele da Nord, dal Sinai e dai Territori dell’ANP, dove la presenza dei sauditi è sempre più rilevante. Allora? Occorre ricostruire, con l’aiuto della Federazione Russa e degli stessi USA, uno status quo mediorientale che comporti la definizione di nuovi e più razionali confini, una trattativa sul disarmo regionale, un nuovo summit, sulla linea dei vecchi Accordi di Madrid, che riprenda il filo della securizzazione di Israele, riconoscendo un nuovo status di grande potenza alla Russia e una nuova dottrina di intervento della NATO nell’area.

  • Progetto Dreyfus su Instagram

    Questo errore è visibile solamente agli amministratori WordPress

    Errore: Nessun feed trovato.

    Vai alla pagina delle impostazioni del feed di Instagram per creare un feed.

  • FOLLOW US