Una grande, immensa “Ayatollah land”, un impero rivoluzionario iraniano dal Mediterraneo all’Afghanistan: a questa minaccia, già impiantata, deve guardare chi voglia capire le ragioni che hanno spinto Tayyp Erdogan non solo ad abbattere il Sukhoi russo sui cieli di Siria, ma soprattutto a rivendicare a sé stesso l’onore di avere dato l’ordine. Evento senza precedenti –non notato dai media- che spiega la natura tutta politica del contendere tra Russia e Turchia. E’ stata infatti questa la risposta, in perfetto stile neo ottomano, alla visita del giorno precedente compiuta da Vladimir Putin a Teheran. Qui Erdogan ha definitivamente preso atto di una realtà evidente, ma ipocritamente e stupidamente negata dall’Onu e dai media politically correct tutti tesi a credere che le trattative di Vienna sulla road map per la “soluzione politica” in Siria siano serie: Putin non ha il minimo potere di convincimento sull’Iran quanto alla sorte di Beshar al Assad. La Guida Suprema della Rivoluzione, il Rahbar, l’ayatollah Alì Khamenei ha infatti chiuso ogni spiraglio, emettendo con l’alleato russo un durissimo comunicato sul punto, accompagnato inoltre da insulti agli Stati Uniti, tanto per mostrare lo spirito costruttivo dello “storico accordo” sul nucleare. Addio dunque allo “spirito di Vienna”, congedo imminente per l’elegante ma inutile Staffan de Mistura e presa d’atto immediata della Turchia del sigillo russo alla creazione di un piccolo impero iraniano sciita rivoluzionario –il termine non è esagerato- che parte dal Libano, si estende a nord alla larga fascia costiera tra Damasco e Idlib e il mare, si interrompe con il Califfato, ma poi riprende con l’Iraq e ovviamente l’Iran per poi estendersi allo Yemen, con una strategica testa di ponte a Gaza, con l’alleato Hamas.
E’ un progetto apertamente enunciato dai dirigenti “riformisti” di Teheran, di fronte al quale l’Amministrazione Usa ha incredibilmente chiuso occhi e orecchie. Ma è un obiettivo che si sta realizzando, come annunciato la primavera scorsa da Ali Younesi, consigliere del presidente Hassan Rouhani ed ex ministro dell’Intelligence nel governo di Khatami, che così ha enucleato la concezione geopolitica del regime iraniano, imperniata sulla esportazione della rivoluzione: “L’Iran oggi è ridiventato quell’impero che era un tempo, come indicava tutta la sua storia, e ora Baghdad è il centro della nostra civiltà, cultura e identità, come lo era nel passato. Mi riferisco all’impero Sasanide che governava nell’epoca pre-islamica e che ha conquistato l’Iraq. La capitale dell’impero era Baghdad. Tutta l’area del medio oriente è Iran che protegge tutte le nazionalità dell’area perché le consideriamo parte del nostro Iran che combatte l’estremismo islamico, il takfirismo, l’ateismo, i neo ottomani, i wahabiti, l’occidente e il sionismo”.
E’ il progetto realizzato sul terreno dal generale dei Pasdaran Qassem Suleimaini, che comanda la grande “Legione straniera” sciita, di pasdaran e hezbollahi, a cui Beshar al Assad deve la salvezza, vero “governatore della Siria (tanto che ha persino diretto le difficilissime operazioni per recuperare il pilota russo del Sukhoi abbattuto). Una armata sciita a difesa di questo enorme Ayatollah Land, dispiegata dal Mediterraneo, all’Afghanistan, al Mar Rosso che prefigura una enorme, intollerabile minaccia all’equilibrio del Medioriente che solo la dabbenaggine –il termine è poco scientifico, ma è l’unico aderente al vero- della Amministrazione Usa continua a non vedere.
Come è naturale, né la Turchia sunnita, né il blocco dei paesi arabi sunniti, inclusi l’Egitto e persino il lontano Marocco, possono tollerare questo nuovo Impero Sasanide che si espande sull’onda di una spinta rivoluzionaria –quindi anche ideale e identitaria- inarrestabile. Nemmeno l’Europa può tollerarlo. Ma l’Europa non c’è e quindi i paesi europei non si accorgono, non vedono nulla.
Il 20 novembre, Ali Jafari, il potente comandante in capo dei Pasdaran iraniani ha chiaramente enunciato questo progetto, già largamente concretizzato: “Uno dei risultati ottenuti dai basiji è stato quello di mettere insieme le forze popolari dei difensori della Rivoluzione in Iran, Siria, Iraq e Yemen. Tutte queste forze sono unite. E questo significa la formazione di un unica nazione islamica”. Concetto peraltro già enunciato l’estate scorsa: “L’Iran ha raggiunto un nuovo capitolo della sua politica di esportazione della rivoluzione islamica all’estero. La rivoluzione islamica sta progredendo a buona velocità. Non solo la Palestina e il Libano hanno conosciuto l’influente ruolo della Repubblica islamica, ma anche i popoli di Iraq e Siria. Anche loro apprezzano la nazione dell’Iran. La fase dell’esportazione della rivoluzione è entrata in una nuova era. Hezbollah e la sua resistenza contro uno degli eserciti più forti del mondo è uno dei miracoli della Rivoluzione islamica. E’ parte della potente influenza del sistema islamico come timoniere della regione. L’Iran miete successi continui nella sua strategia di esportazione della rivoluzione islamica in medio oriente”.
Il disastro è che, mentre Erdogan intimava il suo stop alle mire iraniane, colpendo l’alleato russo, gli occidentali continuavano a tessere inutili alleanze per una guerra dai cieli, che deve rimanere nei cieli, massacrando tanti civili e pochi jihadisti. Simbolo crudele di un Occidente che si rinchiude nella sua tecnologia siderea e celeste, ben lontano dal suolo. Ben lontano dalla realtà, di cui non vuol prendere atto. Perché, se lo facesse, dovrebbe rendersi conto che la lotta tra gli scismi islamici, quello wahabita e quello khomeinista, oggi infiamma una guerra civile che dilania sunniti e sciiti in un contesto che non permette la mediazione.
Soprattutto, dovrebbe prendere atto che l’elemento destabilizzante è storicamente dato dal radicamento e dalla espansione della rivoluzione sciita iraniana, le cui milizie in Iraq, peraltro, trattano i sunniti “con la stessa crudeltà dei miliziani dell’Isis”, come denuncia il capo dei Servizi del Kurdistan iracheno Massoud Barzani “Le milizie sciite sono un pericolo maggiore dello Stato islamico”. Identico il giudizioe del grande imam al Tayeb che il 12 marzo 2015 ha emesso un lungo, inequivocabile comunicato che ha creato un caso diplomatico tra Baghdad e il Cairo: “Al Azhar esprime le sue preoccupazioni per le decapitazioni e le aggressioni contro pacifici cittadini iracheni, del tutto estranei allo Stato islamico, commesse dalle milizie sciite alleate con l’esercito iracheno a Tikrit e nell’Anbar. Queste milizie hanno bruciato moschee sunnite e ucciso donne e bambini sunniti. Condanniamo fermamente i crimini barbari che le milizie sciite commettono nelle zone sunnite che le forze irachene hanno iniziato a controllare. Invitiamo le organizzazioni umanitarie internazionali per la difesa dei diritti umani a intervenire immediatamente per fermare questi massacri”.
Questo è lo scenario reale in Mesopotamia oggi. Per questo, per non prendere atto dell’obbligo di una scelta tra il fronte turco-arabo-sunnita e quello iraniano-sciita, Barack Obama fa come l’asino di Buridano, bombardando dall’aria un po’ a fianco degli sciiti (in Iraq), un po’ dei sunniti (nello Yemen).
Per questo, sino al gennaio 2017, quando entrerà in carica un nuovo presidente Usa, lo scenario mediorientale continuerà con tutta probabilità a svilupparsi lungo queste stesse linee.