Domenica 4 ottobre 2015, 7 del mattino. Gerusalemme non ha ancora avuto modo di riprendersi e di stringersi attorno ai superstiti e ai familiari delle vittime dell’ennesima strage di ieri avvenuta nel cuore della città, in un giorno di festa, ad opera del terrorismo palestinese. Si è svegliata stordita e frastornata dalla notizia di un altra aggressione a mano armata: la vittima, quindici anni, accoltellata al petto e alla schiena, è viva per miracolo. Il terrorista, neutralizzato. Ma la vera notizia, oggi, è che al di fuori di Israele non c’è notizia. Il mondo tace. Un silenzio che fa rumore, che uccide. Che odora di sangue, di copertoni bruciati e polvere da sparo. Che scorre sotto gli occhi di noi israeliani sotto forma di lanci di pietre e di molotov, di vetri di parabrezza infranti, di ambulanze assaltate,di lame sguainate, di proiettili, di uomini donne e bambini terrorizzati. Quando va bene. Agonizzanti a terra, a volte morti, quando va male.
Ma le nostre urla, la nostra disperazione, mi verrebbe da dire la nostra rabbia – si, ancora una volta, come da copione, siamo stati lasciati soli dai “capoccia” del mondo intero e nonostante tutti i precedenti non ce ne capacitiamo: impareremo mai la lezione? – per quanto siano strazianti non riescono a sovrastare il rumore di fondo dell’indifferenza e dell’omertà dei leader mondiali, quello stesso rumore di fondo che pochi giorni fa ha riecheggiato durante il discorso del nostro premier nelle sorde stanze delle Nazioni Unite . “L’angelo della Pace”, nel frattempo, nella sua alcova di Ramallah, sembra aver capito ciò che noi ci rassegniamo ad accettare: il sangue ebraico, quando cade, scorre in silenzio. E per questo, affinché questo sangue continui a scorrere a fiumi, arma di fanatismo e coltellacci ragazzini senza più anima allevati a pane e ad odio fin da quando hanno avuto la forza di stringere tra le labbra un seno. Preparati diligentemente dagli uomini dell’ANP fin da quando hanno iniziato a camminare a quel giorno in cui nel nome di “Allah” e della “Palestina” dovranno uccidere quanti più ebrei possibile e poi morire .
8 del mattino. Le forze di sicurezza hanno deciso misure straordinarie per evitare una escalation nella città vecchia. Ingenti le forze di polizia sul campo e i controlli. E’ consentito l’accesso solo ai turisti, ai cittadini israeliani e ai residenti. Non serve: il centro storico non è mai stato così deserto, molte le serrande abbassate. Tra i pochi visitatori, Baruch e Ina, di Modi’in : “non abbiamo alcuna intenzione di modificare i nostri programmi, il giorno che avremo paura di camminare nella città vecchia persino di giorno chiuderanno le porte. Dobbiamo rafforzare la città”. Una donna di nome Miriam cammina da sola nei vicoli in direzione del Kotel : “fa un po’ paura, ma ho fede in Hashem”.
Intanto, in Giudea e in Samaria è di nuovo il deliro. Buongiorno, Cisgiordania. Lanci di pietre contro soldati di pattuglia a Bir Zeit, vicino Ramallah. Scontri alle porte del villaggio di Hursa nei pressi di Hebron. Dalla vicina Giordania, dicono che visti i nostri tentativi di cambiare lo status quo sui luoghi santi (???) ritireranno l’ambasciatore. No, aspettate: lo ritireranno, ma solo dopo la fine delle feste ebraiche per non urtare la nostra sensibilità. Grazie mille re Abd Allah per la tua magnanimità: questa ennesima dichiarazione di intenti ad orologeria sicuramente aiuterà a ripristinare la calma. Nel frattempo, ancora lanci di pietre: questa volta ad essere presa di mira la base militare di Anatot. 11 del mattino. Il dolore composto dei familiari e delle centinaia di persone accorse ai funerali di Rabbi Nechamia Levi, 41 anni, è palpabile. Tra la folla, spiccano i capelli bianchi di Rivlin.Nechamia Levi lascia una moglie e sette figli e una vita dedicata al servizio del prossimo e di Israele, come soldato combattente prima e come rabbino militare poi. Altruista fino alla fine, quando ha sentito le urla di Aaron Bennet, 24 anni, non ha esitato a lasciare la sua famiglia indietro e a correre in suo soccorso. Anche se questo ha significato morire e il giovane ventiquattrenne era ormai spacciato. Aaron, Haredi e soldato volontario per amore della sua terra. Lascia una moglie, Adele, gravemente ferita nel corso dell’attento, e una bambina piccola, a cui ha fatto scudo col suo corpo ed è rimasta incolume.
Rivlin decide di parlare, si fa largo tra la folla. Gli occhi sono lucidi: “Rabbi Nechamia, sono qui, davanti a tua moglie e ai tuoi bambini e il mio cuore rifiuta di accettarlo”. “Siamo impegnati in una difficile lotta, una lotta continua e quotidiana. Il dolore della costruzione di Israele e di Gerusalemme, dolore che cresce, che continua ad esistere… e che si fa più intenso. Ogni tanto, come oggi, questo dolore è lancinante. Sono cresciuto in Israele quando ci era proibito con la forza di arrivare al Muro Occidentale, ed ero un bambino quando era sufficente suonare lo Shofar al Muro per essere arrestati dalla polizia del Mandato Britannico. Quei giorni non ritorneranno.” Non ritorneranno. Ma ancora una volta, ad affrontare questo dolore siamo da soli. E le ore, la giornata e i giorni che verrano sembrano non voler scorrere mai.