L’ex Presidente della Tunisia Moncef Marzouki è stato uno dei partecipanti più famosi della nuova Freedom Flotilla che, nel tentativo di forzare il blocco navale israeliano, è stata fermata dalla marina israeliana a pochi chilometri dalle spiagge di Gaza. Mentre Marzouki era a bordo della Marianne un suo connazionale, Seifeddine Rezgui, massacrava a sangue freddo decine di turisti europei che credevano di essere al sicuro in Tunisia.
Rezgui non ha avuto bisogno di andare in Siria per radicalizzarsi. A prima vista un giovane di ventitré anni come gli altri, appassionato di break-dance e calcio, si è rivelato uno spietato killer guidato da quell’estremismo islamico che la Tunisia pensava di aver sradicato dal suo territorio ma che nei fatti ha attecchito su migliaia di giovani. Sebbene dalla rivoluzione del 2011 il paese nordafricano abbia dimostrato una certa inclinazione verso la democrazia, la Tunisia è al momento uno dei più grandi esportatori di jihadisti nel mondo e il paese con più cittadini arruolati nelle fila dello Stato Islamico. Un reclutamento fra l’altro avvenuto maggiormente durante i tre anni di presidenza di Marzouki.
Come avrà reagito l’ex Presidente tunisino alla notizia? Il barbaro attentato della spiaggia di Sousse probabilmente distruggerà l’industria del turismo su cui Marzouki aveva investito parecchie risorse durante il suo mandato. Inoltre la buona fama che il paese si era costruito durante le Primavere Arabe è andata definitivamente a farsi benedire.
Ora è lecito chiedersi quale logica abbia portato una figura istituzionale di un paese in lotta contro il terrorismo a intraprendere un’azione così apertamente a favore di Hamas, un’altra organizzazione jihadista del Medio Oriente. Non è sicuramente la voglia di aiutare i palestinesi visto che il carico della Marianne non può essere minimamente paragonato alle tonnellate di aiuti umanitari che entrano a Gaza dai valichi israeliani. Inoltre se il materiale fosse stato sottoposto prima ai controlli di routine nei porti israeliani avrebbe raggiunto molto più velocemente l’enclave palestinese.
Ovviamente l’intento era quello di demonizzare Israele e minare l’efficacia del blocco navale che ogni giorno impedisce all’organizzazione terroristica di Gaza di contrabbandare armi da utilizzare contro i civili israeliani. E’ ironico però che proprio nel week-end in cui un ragazzo tunisino ha deciso di effettuare una strage di innocenti nel suo paese Marzouki abbia cercato di dimostrare come nella complicata equazione mediorientale Israele, e non il terrorismo di matrice islamica, sia la parte più malvagia.
Il viaggio di Marzouki non è però l’unico paradosso di questa strana settimana: mentre gli estremisti islamici colpiscono in Francia, Kuwait, Siria, Iraq, Somalia e Ciad, gli Stati Uniti sono impegnati in colloqui con l’Iran, il più grande sponsor del terrorismo internazionale, che se portati a termine rimuoverebbero le sanzioni economiche imposte alla Repubblica Islamica e assicurerebbero per molti anni il potere al regime degli ayatollah. Come se non bastasse poi il Consiglio per di Diritti Umani delle Nazioni Unite sta preparando una nuova risoluzione di condanna verso Israele per presunti crimini di guerra commessi a Gaza.
In momenti come questo per i sostenitori di Israele è difficile non essere cinici. Chiedere a un piccolo paese di circa otto milioni di abitanti, stretto tra il mare a ovest e l’avanzante Stato Islamico a est, di mettere da parte la paura e abbracciare la speranza è decisamente troppo. Una speranza che per essere abbracciata richiederebbe, tra l’altro, l’abbandono di territori contesi indispensabili per la sicurezza dei confini. Una speranza condizionata dalla minaccia di sanzioni economiche e isolamento internazionale. Marzouki avrebbe fatto meglio a starsene a casa o, almeno, a dichiarare una volta appresa la notizia della strage di Sousse che avrebbe preferito essere in Tunisia per impegnarsi nel contrasto dell’estremismo islamico, il vero male che attanaglia la regione.