Il popolo d’Israele, chi conosce la storia lo sa, ha sempre sofferto ed è sempre stato alla ricerca di un barlume di speranza che potesse portarlo ad una situazione di pace. Sin dai tempi biblici ma anche e soprattutto da quando è stato fondato lo Stato d’Israele.
Ricordo perfettamente, nella mente e nei ricordi di un bambino di 7 anni, quel triste giorno in cui una mano violenta di uno scellerato estremista israeliano colpì senza remore uno dei simboli d’Israele, Yitzchak Rabin, a margine di una manifestazione a Tel Aviv. Con lui in quella notte morì insieme ad uno dei padri fondatori dello Stato ebraico anche uno dei protagonisti del complesso processo di pace nell’ambito del conflitto israelo-palestinese.
Nonostante non fosse ancora chiaro nella mia mente cosa potessero rappresentare oggi per me Israele, Ebraismo e Sionismo e quanto rappresentato in questi tre concetti, vedere le immagini del funerale di un personaggio della caratura di Rabin crearono nella mia testa sensazioni forti che sicuramente fino a quel preciso istante non avrei mai immaginato. Quel che più mi colpì fu l’impressionante scena dei miei genitori che non scrollarono nemmeno per un attimo la propria attenzione dalle immagini della tv ma soprattutto l’enorme numero di primi ministri, presidenti e rappresentanti delle istituzioni internazionali arrivati in un piccolo Stato come Israele per rendere tributo ad un gigante della storia. Ricordi nitidi come le parole della moglie Leah e di sua figlia Dalia, stampate ormai a fuoco nella mia testa. Ricordo perfettamente che solo le lacrime distoglievano ogni tanto il mio sguardo dalle immagini di quel triste giorno.
A 19 anni di distanza dalla sua morte tante cose sono cambiate ma una costante purtroppo rimane: in quella terra e tra quei popoli il sogno di Rabin ancora non si è avverato. La pace (Shalom in ebraico) non è ancora arrivata.
Potrebbe sembrare brutale e cinico ma a questo punto, anche sulla scia dell’ormai avviato processo di riconoscimento dello Stato di Palestina da parte di alcuni paesi europei, potrebbe non essere sbagliato pensare che questa ricerca spasmodica della pace sia controproducente. La pace, quella vera, piace a tutti. Israeliani in primis. La pace però inevitabilmente ha un costo ed in questo caso rischia di essere altissimo. Anche oltre ogni limite consentito. E se per arrivare alla pace con i rappresentanti del popolo palestinese si mettesse in discussione l’esistenza e la sicurezza dello Stato d’Israele? Sarebbe ancora giusto pensare alla pace?
Si può accettare il riconoscimento in forma coatta e prevaricatrice di uno Stato non meglio identificato come quello palestinese i quali rappresentanti non hanno mai fatto pubblica ammissione di voler rinunciare alla volontà di distruggere Israele e abbandonare quindi la via del terrorismo?
E’ quindi innegabile che per far si che nasca un giorno – finalmente! – uno Stato Palestinese debba esserci alla base un riconoscimento reciproco magari svolto intorno ad un tavolo delle trattative senza però condizionamenti esterni. Utopia? Forse, ma in questo mi piace pensarmi un romantico sognatore come Rabin.
Non è mai bello cercare di interpretare le parole ed i pensieri di una persona che ormai ci ha lasciati, ma attraverso le parole di Shimon Peres, pronunciate alla manifestazione avvenuta in ricordo di Rabin ieri, è lecito pensare che anche lo stesso Rabin non avrebbe mai messo in pericolo il proprio popolo ed il proprio stato per la mera e ormai forse paradossale ricerca della pace.
La pace è bella e soprattutto si fa con il nemico citando le parole dello stesso ex-presidente Shimon Peres. Responsabilità della classe politica e dirigente però e quella di capire quale siano i limiti non prevaricabili che potrebbero non solo non rendere più vicina e concreta la possibilità di arrivare ad una pace stabile ma anche portare, oltretutto, ad uno scenario drammatico.