I volti della Shoah: testimonianze

Miriam Spizzichino
Miriam SpizzichinoScrittrice & Blogger
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Storia

I volti della Shoah: testimonianze

Storia
Miriam Spizzichino
Miriam SpizzichinoScrittrice & Blogger

Quando si parla di Shoah vengono usati diversi termini come deportazione, Olocausto, genocidio, sterminio e tanti altri. Tutti questi termini sono stati racchiusi in un’unica parola ebraica, “Shoah”, che significa “catastrofe”, “distruzione”. E proprio questo è stato per oltre sei milioni di ebrei e non solo. La decisione del fascismo di introdurre una legislazione antiebraica maturò tra la fine del 1935 e il 1936. Secondo alcuni storici, il motivo era che Mussolini voleva colpirli in base alla loro diversità religiosa rispetto a una nazione totalitariamente fascista e cattolica.

Tra le tante testimonianze che ho letto e/o sentito, ce n’è una che riesce sempre a farmi rabbrividire: quella di mia zia Settimia Spizzichino (unica donna sopravvissuta alla retata del 16 ottobre 1943 a Roma) che venne deportata ad Auschwitz-Birkenau. Poi per diversi motivi finì nel blocco 10 del campo centrale dove fu impiegata da Mengele come cavia umana per esperimenti sul tifo e sulla scabbia. Nel suo libro racconta: “Pian piano mi alzai dal letto e sorreggendomi con la sedia mi trascinai fino al lavandino. Mi aggrappai al bordo con tutt’e due le mani, perché la testa mi girava. Alzando gli occhi vidi una sconosciuta, uno scheletro sparuto coperto di piaghe. Pensai: “Dio, com’è ridotta questa!” E portai le mani al viso. La sconosciuta fece lo stesso gesto. Allora capii con orrore che stavo guardando la mia immagine allo specchio. Non mi ero più specchiata da quando avevo lasciato la mia casa. Dio quanto piansi! Eppure ce la feci. Quando smisero di iniettarmi microbi, riuscii a rimettermi e a camminare.”

Piero TerracinaPiero Terracina, invece, fu arrestato con la famiglia nella capitale il 7 aprile 1944, venne deportato ad Auschwitz, dove fu liberato il 27 gennaio 1945. Ho avuto modo di conoscerlo molto tempo fa insieme ad altri ragazzi. Per quanto riguarda la scuola, Piero racconta: “Ero stato educato all’amore per lo studio, per la scuola. Mia madre non tralasciava occasione per ricordarci che per riuscire nella vita bisognava prima riuscire nella scuola.” Il 15 novembre 1943 entrò regolarmente in classe e si diresse verso il suo banco. Tutti i suoi compagni si fermarono in silenzio, ad osservarlo. L’insegnante lo bloccò e gli disse: “Esci, che tu non puoi stare qui”. Stiamo parlando di un bambino della 5° elementare e certe cose, a quell’età, proprio non si dimenticano. Ci tenevo a riportarvi una sua piccola testimonianza sul suo arrivo ad Auschwitz: “Arrivammo dentro il campo di concentramento, dalle fessure vedevamo le SS con i bastoni e i cani. Scendemmo, ci picchiarono, ci divisero. Formammo due file, andai alla ricerca dei miei fratellini, di mia madre, noi non capivamo, lei sì: mi benedì ala maniera ebraica, mi abbracciò e disse “andate”. Non l’ho più rivista. Mio padre, intanto, andava verso la camera a gas con mio nonno. Si girava, mi guardava, salutava, alzava il braccio. Noi arrivammo alla “sauna”, ci spogliarono, ci tagliarono anche i capelli. E ci diedero un numero di matricola. “Dove sono i miei genitori?”, chiesi a un altro sventurato. E lui rispose: “Vedi quel fumo del camino? Sono già usciti da lì”.

Di testimonianze ce ne sono molte altre, tra cui alcune veramente molto toccanti. Io sono una “nipote della Shoah” e nonostante i miei ventun anni so bene quello che hanno passato tutte quelle famiglie che non vedevano i propri parenti tornare. Oggi, nel 2015, ci sono ancora famiglie che cercano i propri parenti, tra cui io e la mia famiglia. Stiamo ancora cercando notizie riguardo al mio bisnonno paterno che sembrava morto ad Auschwitz-Birkenau e invece sembra essere stato avvistato dalla Croce Rossa a Cernovitz, un anno dopo la liberazione. Non sappiamo se ha perso la memoria e non è tornato, oppure se è morto giovane o se è riuscito a rifarsi una vita. Non sappiamo niente. Mio nonno, Mario Spizzichino, si è visto portare via il padre, Pacifico, a soli due anni. Di lui ha pochi ricordi e qualche foto. Per non parlare del fratello Giuseppe che non ha fatto in tempo a conoscerlo perché era ancora nel ventre della madre. Un bambino, ormai uomo, in attesa di nascere in un mondo che invece di dare, gli ha tolto ancor prima di venire al mondo.

 

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