Rabbàn Gamlièl soleva dire: colui che di Pèsach non ha detto (amàr) queste tre parole, non è uscito dall’obbligo (della mitzvà) e sono queste: Pèsach (agnello pasquale), Matzà (azzima) e Maròr (erba amara).
In ricordo del Santuario, come (faceva) Hillèl che le avvolgeva e le mangiava in un solo boccone per eseguire quanto è detto (Numeri 9, 11): “E mangeranno (l’agnello pasquale) insieme ad azzime (mazzoth) ed erbe amare (merorìm)” (dalla Hagadà di Pèsach)
Lo amareggiarono e contesero con lui (Genesi 49: 23): I suoi fratelli lo amareggiarono: la stessa espressione ricorre in “Essi amareggiarono la loro vita” (Esodo, 1: 14); contesero con lui: i suoi fratelli divennero i suoi nemici. (Commento di Rashi)
I comandamenti e le feste ebraiche sono un’occasione per riflettere sulle modalità attraverso le quali l’uomo può raggiungere la libertà, un’idea questa che sta alla base della tradizione ebraica. Infatti, senza libertà, verrebbe meno il concetto di responsabilità che fa dell’uomo una creatura speciale: all’uomo è dato non soltanto di riflettere, ma di imitare Dio stesso creando la sua storia (secondo il senso che ha il verbo amàr nel racconto della creazione del Mondo)
La marcia verso la libertà inizia con lo scrollarsi di dosso il giogo del dittatore (il Faraone di tutti i tempi), continua accettando una legge e condividendola con gli altri e si consolida quando l’uomo ha raggiunto le condizioni economiche che lo liberano dai bisogni materiali. E’ questo il percorso che l’ebreo fa nel corso dell’anno passando da Pèsach (liberazione dall’Egitto) a Shavuòth (dono della legge) e a Sukkòth (festa del raccolto): la libertà spirituale e culturale – raggiunta attraverso la Legge – può essere lo strumento per salvaguardare quella fisica, ma solo la libertà dal bisogno rappresenta una garanzia che l’uomo è veramente libero.
L’affermazione di questa idea ha però altre implicazioni: la storia dell’uomo sembra sottoposta a una regola quasi universale cui non è possibile sfuggire: tutti i popoli hanno un loro percorso storico – Gianbattista Vico direbbe una loro giovinezza e una loro maturità – alla fine del quale sono destinati a scomparire. Pèsach in ebraico significa “salto”: infatti Pèsach è il simbolo della libertà dalle catene della storia che dovrebbero circoscrivere la storia di un popolo nel tempo e nello spazio. La storia di Israele, invece, non può essere spiegata in base a un processo meccanico, lineare e dialettico di tesi, antitesi e sintesi – per usare un’espressione cara a Hegel e a Marx – ma come una dialettica del Pèsach, in cui un progressivo avanzamento è accompagnato dal salto, per cui “l’angelo della morte” passa sopra la Casa d’Israele, liberandola dai condizionamenti della storia.
Questa idea si concreta attraverso gli atti che si compiono a Pèsach e in particolare durante il Sèder che ha al centro tre parole chiave:
• pèsach – agnello pasquale – che simboleggia la possibilità del “salto”, della miracolosa esistenza di un popolo e di una cultura antica, ma sempre moderna;
• matzà – azzima, pane non lievitato – in contrapposizione a chamètz – sostanza lievitata – che è il simbolo di una cultura che ha saputo progredire, pur mantenendo la propria integrità, senza assimilare acriticamente comportamenti e pensieri esterni;
• maròr – erba amara – simbolo della schiavitù e della perdita della libertà, come uno dei momenti da non dimenticare per non ricadere negli stessi errori.
Il testo biblico stabilisce che l’agnello pasquale vada mangiato con azzime e con erbe amare, sia le une che le altre al plurale. L’uso del plurale per le azzime è chiaro: le tre azzime che si trovano nel cesto del Sèder rappresentano nella sua interezza il popolo d’Israele nelle tre parti di cui è composto: Cohen, Levi, Israèl.
Ma quali sono le erbe amare di cui parla la Torà (Numeri 9, 11)?
La prima, in ordine di tempo, è quella causata dai fratelli. Nella “benedizione” che Giacobbe impartisce a ogni singolo figlio, a Giuseppe dice (Genesi 49: 23): “Lo amareggiarono e contesero con lui”, parole che richiamano l’episodio che causò la vendita di Giuseppe, la sua discesa in Egitto, cui seguì quella del padre e dei fratelli. I figli d’Israele scendono quindi in Egitto a causa di quanto i fratelli fecero a Giuseppe. L’erba amara ha quindi contraddistinto la storia ebraica ancora prima che gli Egiziani – e quindi degli estranei – la amareggiassero.
La seconda, è l’erba amara che gli ebrei hanno assaporato nell’esilio egiziano, causata questa volta non dai fratelli, ma dagli egiziani che la Torà invita a non detestare perché accolsero gli ebrei in un momento di grave difficoltà (Deut. 23: 8) e che il Signore chiama mio popolo (Isaia 19: 24). L’amarezza causata dai fratelli rimane comunque la causa prima di quella prodotta dagli estranei.
Merorìm: amarezza duplice, quindi, perché causata da uomini che sono fratelli di sangue (i fratelli di Giuseppe) oppure comunque fratelli – in quanto discendenti da un unico padre. Tuttavia, l’amarezza causata dagli egiziani ha effetti meno devastanti di quella dovuta a quei fratelli che, gettando alle ortiche la propria eredità e allontanandosi da noi, rompono l’unità di Israele. Oggi essi non siedono più insieme a noi intorno alla tavola del Sèder e rappresentano, per così dire, il quinto figlio.
In ogni generazione l’uomo deve vedere se stesso come se fosse stato proprio lui a uscire dall’Egitto: ogni generazione ha avuto il suo Egitto, ogni generazione ha mangiato le sue erbe amare, ma ha trovato infine la forza per fare il “salto” e per riconquistare la propria “azzima”.
Ma, secondo quanto insegna Hillel atraverso il suo comportamento, questi tre elementi (pèsach, matzà e maròr) vanno “consumati” insieme: Israele ha sempre dovuto pagare un amaro (maròr/merorìm) prezzo per conservare la propria “azzima”, impedire che si trasformasse in hamètz e garantire la propria sopravvivenza. Questo in virtù della dialettica del salto.
Questo processo terminerà però quando il profeta Elia risolverà l’enigma del quinto bicchiere di vino che viene riempito, ma non bevuto: egli radunerà i dispersi intorno alla tavola del Sèder, farà tornare il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri (Malakhi 3, 24), riconducendo così il popolo ebraico a casa.
Anche se nel modo in cui viene vissuto, questo processo di liberazione è precipuo al popolo ebraico, esso rappresenta una opzione e una sfida aperta a tutti, purché ognuno sappia sradicare il proprio Egitto da dentro di sé.