Traduzione a cura di V. Frediani
Gli osservatori della storia occidentale capiscono che nei momenti di confusione e infelicità, e di grande fermento ideologico, i sentimenti negativi tendono a coagularsi intorno agli ebrei. Le discussioni sui grandi temi del tempo spesso finiscono in discussioni sugli ebrei.
Alla fine del 1800, per esempio, la società francese era lacerato dallo scontro tra la vecchia Francia della chiesa e l’esercito, e la nuova Francia del liberalismo e dello stato di diritto.
I francesi erano preoccupati per la questione di chi fosse francese e chi no. Bruciava l’umiliazione militare dai prussiani. Tutto questo sentimento eruttò contro la figura di un ebreo, Alfred Dreyfus, accusato di tradire la Francia come spia al servizio dela Germania. I suoi accusatori sapevano che era innocente, ma non aveva importanza; era un simbolo di tutto ciò che volevano condannare.
Per fare un altro esempio: i tedeschi nel 1920 e ’30 sono erano preoccupati della loro umiliazione nella Grande Guerra. Questa diventò una discussione sui traditori ebrei che aveva pugnalato la Germania alle spalle. I tedeschi erano preoccupati anche per i dolori della loro economia – questo diventò una discussione sulla ricchezza ebraica e sui banchieri ebrei.
Negli anni dell’ascesa del comunismo e della guerra fredda, i comunisti in discussione con i propri avversari ideologici avrebbero parlato dei capitalisti ebrei e cosmopoliti, o dei medici ebrei in complotto contro lo Stato. Allo stesso tempo, nelle società capitaliste minacciate dal comunismo, vennero condannati gli ebrei bolscevichi.
Questo è il volto di questa ossessione ricorrente. Come il giornalista Charles Maurras scrisse, in modo appropriato, nel 1911: “Tutto sembra impossibile, o spaventosamente difficile, senza l’arrivo provvidenziale dell’antisemitismo, attraverso il quale tutte le cose vanno a posto e diventano semplici.”
L’occidente oggi è alle prese con un senso di colpa per l’uso del potere. Ecco perché gli ebrei, nel loro stato, sono ora tenuti in conto sulla stampa e altrove come il primario esempio di un abuso di potere. Ecco perché per tanti il cattivo globale, come ritratto in giornali e in tv, non è altro che il soldato ebreo, o il colono ebreo. Questo non è perché un colono ebreo o un soldato siano responsabili di un male maggiore di chiunque altro al mondo – nessuna persona sana di mente avrebbe fatto tale affermazione. È piuttosto perché costoro sono gli eredi del banchiere ebreo o dell’ebreo commissario del popolo del passato. É perché quando un guasto morale alza la testa nell’immaginario occidentale, quella testa tende a indossare una kippàh.
Uno si aspetterebbe che la crescente ampiezza e complessità del conflitto in Medio Oriente negli ultimi dieci anni eclissasse la fissazione su Israele agli occhi della stampa e degli altri osservatori. Israele, dopo tutto, è un evento collaterale: Il bilancio delle vittime in Siria in meno di quattro anni supera di gran lunga il totale del pedaggio pagato nel conflitto arabo-israeliano in un secolo. Il bilancio annuale delle vittime in Cisgiordania e Gerusalemme è quello di una mattinata in Iraq.
Eppure è proprio in questi anni che l’ossessione è cresciuto e peggiorata.
Questo non avrebbe molto senso, a meno che non ci rendiamo conto che le persone non sono fissate su Israele nonostante tutto ciò che succede – ma piuttosto a causa di tutto ciò che succede. Come ha scritto Maurras, quando si utilizza l’ebreo come il simbolo di ciò che è sbagliato, “tutte le cose vanno a posto e diventano semplici.”
Gli ultimi decenni hanno portato l’occidente in conflitto con il mondo islamico. I terroristi hanno attaccato New York, Washington, Londra, Madrid, e ora a Parigi. L’America e la Gran Bretagna hanno causato il disfacimento dell’Iraq e là centinaia di migliaia di persone sono morte. L’Afghanistan è stata occupato e migliaia di soldati occidentali sono rimasti uccisi, insieme a innumerevoli civili – ma i talebani sono vivi e vegeti, imperterriti. Gheddafi è stato rimosso e la Libia non va meglio. Tutto questo è fonte di confusione ed è scoraggiante.
Essa spinge la gente a cercare risposte e spiegazioni, e queste sono difficili da trovare. É in questo contesto che il Culto dell’Occupazione ha preso piede. L’idea è che i problemi del Medio Oriente abbiano qualcosa a che fare con l’arroganza e la perfidia ebraica, che i peccati del proprio paese possono essere proiettati sul vecchio schermo bianco del mondo occidentale. Questa è l’idea sempre più riflessa nei campus, nei sindacati e nella fissazione dei media su Israele. Si tratta di una proiezione, il cui strumento principale è la stampa.
Come un reporter della BBC ha informato un ebreo intervistato in una ripresa televisiva alcune settimane fa, dopo che un terrorista musulmano aveva ucciso quattro clienti ebrei in un supermercato di Parigi, “Molti critici della politica israeliana suggerirebbero che anche i palestinesi hanno sofferto enormemente per mano ebraica.” Tutto, cioè, può essere collegato all’occupazione e gli ebrei possono essere incolpati anche per gli attacchi contro di loro. Questa non è la voce di chi perpetra, ma qualla di chi abilta. La voce degli abilitanti è meno onesta di quella di dei perpetratori ed è più pericolosa, essendo dissimulata in rispettabile lingua inglese. Questa voce è stentorea e sta crescendo di volume. Questo è il motivo per cui l’anno 2015 vede molti ebrei dell’Europa occidentale dare nuovamente un’occhiata alle valigie.
Gli ebrei del Medio Oriente sono in inferiorità numerica rispetto agli arabi del Medio Oriente di 60 a 1, e dai musulmani di tutto il mondo di 200 a 1. La metà degli ebrei in Israele sono lì perché le loro famiglie sono state cacciate dalle loro case nel 20° secolo, non dai cristiani europei ma da parte dei musulmani del Medio Oriente. Israele ha attualmente Hezbollah sul suo confine settentrionale, al-Qaeda ai suoi confini nordorientali e meridionali, e Hamas a Gaza. Nessuno di questi gruppi cerca la fine dell’occupazione, ma piuttosto vuole apertamente distruggere Israele. Ma è ingenuo sottolineare questi fatti. I fatti non contano: siamo nel mondo dei simboli. In questo mondo, Israele è diventato un simbolo di ciò che è sbagliato – non Hamas, non Hezbollah, non la Gran Bretagna, non l’America, non la Russia.
Credo che sia importante riconoscere le patologie in gioco per cercare di dare un senso alle cose. In questo contesto vale la pena sottolineare che non sono certo il primo a identificare un problema – comunità ebraiche come questa, e in particolare le organizzazioni come Bicom, avevano individuato il problema molto tempo fa e hanno speso enormi sforzi per correggerlo. Vorrei che questo non fosse necessario, non dovrebbe essere necessario, ma senza dubbio è necessario, e sempre di più. Ho grande rispetto per questi sforzi. Molte persone, in particolare i giovani, stanno avendo problemi a mantenere il loro equilibrio in mezzo a questo attacco ideologico che viene mascherato con successo come giornalismo o analisi ed è formulato nel linguaggio della politica progressista. Vorrei aiutarli a mantenerne ferma la condotta.
Credo, tuttavia, che nessuno dovrebbe fare della percezione di una persecuzione il centro della propria identità, del proprio ebraismo o del proprio rapporto con Israele. L’ossessione è un dato di fatto, ma non è un fatto nuovo, e non ci dovrebbe immobilizzare nella rabbia o costringerci a ranicchiarci in difesa. Non dovrebbe renderci meno disposti a cercare di migliorare la nostra situazione, a comportarci con compassione per i nostri vicini o a continuare a costruire la società modello che i fondatori di Israele avevano in mente.
Ero a Tel Aviv non molto tempo fa, sul Rothschild Boulevard. La città canticchiava con vitalità. Segni di prosperità erano ovunque, negli edifici Bauhaus ristrutturati, nei vestiti, nei negozi. Ho guardato la gente passare: ragazzini con vecchie biciclette e tatuaggi, uomini d’affari, uomini con donne, donne con donne, uomini con uomini, tutti a parlare il linguaggio della Bibbia e della preghiera ebraica. I razzi di Hamas dell’estate erano già un ricordo, vecchio di solo pochi mesi ma assorbito dall’insopprimibile frenetica vita del paese. C’erano gru ovunque, crescevano nuovi edifici. C’erano studenti con zainetti sovradimensionati e genitori coi passeggini. Ho udito l’arabo, il russo e il francese e il paese andava avanti nelle sue attività con potente allegria e una determinazione che non puoi cogliere, se tutto quel che vedi sono le minacce e l’odio. Ci sono sempre stati minacce e odio, e non si sono mai interrotti. Abbiamo nemici, e abbiamo amici. I cani abbaiano, come si suol dire, e il carretto va per la sua strada.
Una delle domande che ci si presentano circa le guerre contemporanee è che cosa oggi costituisca una vittoria. Nel 21° secolo, quando il campo di battaglia non è più conquistato o perso, quando la terra non passa di mano e nessuno mai si arrende, che cosa significa vincere?
La risposta è che la vittoria non è più determinata sul campo di battaglia. É determinata nel centro, nella società stessa. Chi ha costruito una società migliore? Chi ha fornito una vita migliore per la gente? Dove c’è più ottimismo? Dove possono essere disponibili le persone più felici? Una relazione sulla felicità nel mondo ha classificato Israele come l’11° paese più felice della terra. Il Regno Unito è in 22° posizione.
Gli intellettuali avversi agli israeliani possono sbraitare sui fallimenti morali degli ebrei, camuffando la loro ossessione in qualunque sofisticato modo preferiscano. Gli uomini armati di Hamas e i loro alleati possono starsene in piedi su un mucchio di macerie e dichiarare vittoria. Essi possono sparare razzi e possono persino sparare nei supermercati. Ma se guardi a Tel Aviv o in qualsiasi zona fiorente a Gerusalemme, Netanya, Rishon Letzion o Haifa, capisci che la vittoria è questa. Qui è dove abbiamo vinto, dove vinciamo ogni giorno.