Dopo gli attentati di Parigi in molti hanno chiesto maggiori restrizioni e controlli sul web, in particolare sui social network, per individuare da subito chi, attraverso la rete, diffonde ed incita all’odio e alla guerra santa contro gli infedeli. Tuttavia, né i tre attentatori di Parigi (i fratelli Kouachi e Coulibaly), né Nemmouche (quest’ultimo accusato della strage al Museo Ebraico in Belgio) sembrano essere stati utilizzatori del web, così come non sembra che il loro rapporto con l‘islam salafita sia nato e si sia sviluppato attraverso la rete, piuttosto è stata la loro permanenze nelle carceri francesi ad averli messi in contatto con le loro “guide spirituali”.
Anche in Italia in questi giorni si dibatte sulla necessaria introduzione di nuove misure di lotta al terrorismo islamico: dal ritiro preventivo del passaporto, all’istituzione di una Procura Generale Antiterrorismo – come ribadito sia dal Ministro degli Interni Angelino Alfano sia da quello della Giustizia Andrea Orlando – con il compito di coordinare a livello nazionale le diverse Procure d’Italia anche in materia di lotta al terrorismo internazionale.
Tuttavia, per meglio comprende la necessità di istituire una nuova Super Procura e nuove regole di contrasto al fenomeno jihadista ed in particolare ai cd “lone actor” o “lone terrorist” (estremisti autoctoni, estranei da contesti organizzativi internazionali ma in grado di agire autonomamente e capaci di auto organizzarsi in piccoli gruppi), l’analisi non può che partire dal “discutibile” approccio che alcune Corti di giustizia hanno avuto con il fenomeno; tanto da vanificare, con sentenze permeate da un ipergarantismo ingiustificato (a parere di chi scrive), un importante lavoro investigativo. Decisioni che di fatto hanno rimesso in libertà pericolosi estremisti, alcuni dei quali partiti alla volta della Siria, si sono arruolati nelle milizie jihadiste. Da qui il rischio, come avvenuto per Kouachi e Coulibaly in Francia, di un loro rientro sul nostro territorio con un bagaglio di esperienza di guerra e di odio nei confronti della società occidentale, devastante e pericoloso per conoscenze acquisite e capacità di autoradicalizzazione e reclutamento.
Il giornalista dell’Espresso, Paolo Biondani, in un suo articolo del settembre 2014 – “Porte aperte ai Jihadisti” – ripercorre la storia di alcuni casi che hanno fatto discutere l’opinione pubblica italiana, giungendo ad una equiparazione tra le sentenze che hanno rimesso in libertà i presunti (tanto presunti si riveleranno non essere) jihadisti, con quelle di assoluzione in favore di Riina, Bagarella & co. degli anni 70/80.
Bassam Ayachi (siriano) e Raphael Gendoron (francese convertito all’islam) vengono arrestati a Bari nel 2008 per favoreggiamento dell’immigrazione. Le informative partite da Parigi e da Bruxelles riveleranno che i due soggetti erano considerati i vertici di una organizzazione islamica che aveva tra i suoi scopi principali quello di reclutare giovani europei da indirizzare al martirio in Iraq e in Afghanistan. Nelle successive perquisizioni, la Digos troverà una serie di dvd e pendrive contenenti documenti di Al Qaeda, foto, nominativi di integralisti europei ed alcuni loro testamenti prima di divenire martiri di Allah. Anche gli interrogatori e le intercettazioni svolte in Francia ed in Belgio dimostreranno come Ayachi sia il leader indiscusso di una rete terroristica internazionale. Purtroppo, se in primo grado i due imputati verranno condannati ad 8 anni di reclusione (2011), la Corte d’Appello di Bari nel luglio 2012 li assolverà e gli imputati verranno scarcerati (assoluzione confermata nel successivo processo d’Appello bis, dopo che la Cassazione aveva annullato la prima sentenza di assoluzione). Tornati liberi Ayachi e Genderon partiranno alla volta della Siria, dove il primo viene ritratto con un kalashnikov circondato da numerosi jiahdisti armati ed il secondo troverà la morte in combattimento nel 2013 dopo essersi arruolato in una milizia jihadista.
Altro caso è il rapper “Mc Khalif” alias Anas El Abboubi, nato in Marocco ma cresciuto in Italia da quando aveva sette anni. Nel 2012 Anas chiese alla questura di Brescia di poter organizzare una manifestazione contro un film di un regista americano (film che in Libia portò all’assalto dell’Ambasciata USA a Bengasi e all’uccisione dell’ambasciatore americano), annunciando che avrebbe bruciato le bandiere di Usa e Israele. Da quel momento gli investigatori iniziarono a monitorare il suo pc e scoprirono che Anas era in contatto con alcuni predicatori radicali come Anjem Chaudry (leader del gruppo Islam4UK) e Omar Bakri. Dal pc di Anas venivano inviati costantemente link di siti jihadisti attraverso i quali venivano diffusi inviti al martirio ed a sgozzare gli infedeli. Nel giugno del 2013 la Digos di Brescia in collaborazione con la Divisione antiterrorismo arrestava Anas sulla base dell’art. 270 quinquies del c.p. con le accuse di addestramento con finalità di terrorismo internazionale e incitamento alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali. Tuttavia, quindici giorni dopo, il Tribunale del riesame di Brescia, ritenendo che il sopra citato articolo miri a realizzare
«un’anticipazione di tutela, trattandosi di una norma che punisce condotte prodromiche e funzionali alla (futura) preparazione di attentati o atti di violenza con finalità di terrorismo»,
riteneva di dover dare una interpretazione il più «rigorosa e oculata possibile» della norma, giungendo a sostenere che la selezione di materiale online occasionale e non sistematica, pur inserendosi in un percorso ideologico orientato al fondamentalismo islamico, non era sufficiente ad addestrare alcuno.
Scarcerato Anas partirà per la Siria da dove apre una pagina Facebook con il nome di Anas al-Italy, con una foto profilo che lo ritrae con un mitra.
Altra decisione a dir poco “discutibile” è quella che ha visto mettere in libertà l’imam di Sellia Marina, Mohammed Garouan che assieme al figlio e ad un altro magrebino vennero arrestati, ex art. 270 quinquies del c.p., con l’accusa di addestramento ad attività con finalità di terrorismo internazionale. Gli inquirenti avevano scoperto che i tre magrebini diffondevano video nei quali venivano esplicate le tecniche per diventare cecchini, per realizzare cinture esplosive e per preparare ordigni per attacchi ai mezzi militari. Nei video sequestrati venivano riproposte le cruenti immagini dell’esecuzione di alcuni militari iracheni per mano degli “insorti”. Quello che sembrava un impianto accusatorio inattaccabile di fatto venne “abbattuto” dalla Cassazione (chiamata a decidere sulla sentenza del Tribunale del Riesame), secondo la quale “il terrorismo virtuale, fatto di manuali e corsi di formazione, finalizzati a formare il perfetto terrorista, capace di puntare e colpire l’obiettivo da infallibile cecchino, così come di preparare e utilizzare l’esplosivo per far saltare in aria i mezzi militari dei paesi occidentali presenti in Iraq, non è reato… nessun elemento in atti consente di poter asserire, se non surrettiziamente, che i tre indagati abbiano realizzato una scuola di preparazione ed esercitazione volta ad addestrare uno o più soggetti per la fabbricazione di armi o per il compimento di azioni terroristiche”.
Mentre l’Italia si apprestava a corrispondere ai tre magrebini un risarcimento di 180mila euro per l’ingiusta detenzione (8 mesi), nell’aprile del 2014 il giovane figlio dell’imam, Brahim Garouan, trovava la morte in un bombardamento in Siria mentre combatteva la sua guerra santa contro gli infedeli, così entrando nella lista degli otto “jihadisti d’Italia” che risultano morti in battaglia.
Purtroppo vien da dire che se non cambierà, anzi se non si rovescerà l’approccio autodistruttivo di cui è permeata la nostra cultura nei confronti dell’islam, con inevitabili riflessi anche nelle aule di giustizia, del tutto inutile sarà qualsivoglia misura di contrasto al terrorismo jihadista che verrà presa nel prossimo futuro.