Le strategie arabo palestinesi contro Israele ormai disarmate dagli accordi di normalizzazione. Nella condotta della guerra si distinguono la tattica, cioè il modo in cui vengono condotti e preparati i singoli concreti combattimenti e la strategia, cioè il modo in cui gli eserciti si schierano e si muovono per programmare, realizzare e sfruttare al meglio i combattimenti in vista degli obiettivi del conflitto. E poi c’è quella che si chiama “grande” o “alta” strategia, il cui ruolo “consiste nel coordinare e dirigere tutte le risorse di una nazione, o un gruppo di nazioni, verso la realizzazione dell’oggetto politico della guerra”. Per riuscirci, essa deve “sia calcolare che sviluppare le risorse economiche e umane di una nazione per sostenere i servizi bellici. Anche le risorse per il morale (per incoraggiare lo spirito di volontà delle persone) sono spesso importanti tanto quanto avere il controllo delle più concrete forme del potere [ma anche] impiegare il potere della pressione finanziaria, e (non ultima) la pressione etica per indebolire la volontà dell’avversario. [Infine] mentre l’orizzonte della strategia è legato alla guerra, la grande strategia guarda oltre la guerra, alla pace che seguirà” ( B. H. Liddell Hart, Strategy).
Queste definizioni si applicano molto bene per capire la guerra dei cent’anni in cui Israele (e l’yishuv [insediamento] sionista che l’ha preceduto) si difende dalle aggressioni provenienti da parti consistenti del mondo islamico e in particolare arabo. Episodi tattici sono stati gli infiniti attacchi terroristici, le rappresaglie, le battaglie. Le strategie sono state espresse dagli schieramenti dei terroristi, delle armate arabe, delle forze imperialiste iraniane negli ultimi anni, dalle azioni dell’esercito israeliano. A questo livello troviamo gli attacchi concentrici degli eserciti arabi fra il ‘48 e il ‘73, ma anche la “guerra d’attrito” egiziana negli anni Sessanta e Settanta, la campagna dei dirottamenti aerei nei primi anni dell’OLP, la costruzione dei tunnel di Hamas, l’accumulo dei missili da parte di Hezbollah e di Hamas, la marcia di avvicinamento e di accerchiamento delle milizie iraniane nell’ultimo decennio rispetto sia a Israele che ai paesi sunniti; ma anche la ricerca della superiorità aerea e la guerra di movimento dei carri armati che hanno caratterizzato le forze di difesa israeliane, lo costruzione della barriera difensiva e l’uso degli antimissili come Iron Dome.
Dietro a queste strategie vi sono da parte araba poche “grandi strategie”. La prima, che parte dalla primavera 1920 (battaglia di Tel Hai, 1.3.1920, in cui cade Joseph Trumpeldor; pogrom di Gerusalemme, 7.4.1920; pogrom si Jaffa, 1.5.1921) e dura fino alla “guerra del Kippur (ottobre 1973) è molto elementare, consiste nell’assalto frontale, nel tentativo di uccidere più ebrei possibile, nel distruggere case e villaggi, nel tentare di bloccare la loro immigrazione. Variano le strategie a seconda delle forze in gioco, dalle folle di teppisti convocate dal Muftì di Gerusalemme, alle bande di beduini agli eserciti di grandi stati; ma l’impostazione è la stessa, sconfitta dalla controstrategia israeliana di creare istituzioni difensive (Haganà, Palmach, l’esercito vero e proprio) e di affidarsi al controattacco preventivo, soprattutto aereo.
Dopo aver perduto l’ultima battaglia campale, nel ‘73, gli stati arabi capiscono che non possono sconfiggere frontalmente Israele e, anche su suggerimento dell’Unione Sovietica e dei servizi segreti suoi e dei satelliti (come si può leggere qui) nasce una seconda grande strategia, quella del movimento palestinista. Distruggere Israele viene presentato non più come l’obiettivo di stati che vogliono impadronirsi del suo territorio e impedire l’insediamento ebraico, ma come la “lotta di liberazione nazionale” di un “popolo” inventato per l’occasione, tanto inventato che perfino il suo nome prima inesistente viene tratto dalla definizione geografica europea del territorio, non da fonti autonome.
La prima strategia subordinata (ma sempre “grande”) che si adotta per dar corpo al disegno palestinista è terroristica, in parte inventata come nel caso dei dirottamenti aerei, in parte imitata dalle teorizzazioni maoiste e castriste (la “lotta di lunga durata”, la “campagna contro la metropoli”) o dalle esperienze di terrorismo suicida del movimento algerino. L’obiettivo è doppio: rendere invivibile lo stato degli ebrei e indurli a fuggire (perché tanto “gli infedeli sono vigliacchi”) e ottenere con la “lotta” la solidarietà nei movimenti “progressisti”, per esempio dell’ondata studentesca degli anni Sessanta (a questo si dedicavano i servizi segreti dell’Est, in particolare i tedeschi, come racconta un libro importante).
La strategia terroristica vera e propria produsse gravi danni, ma venne progressivamente neutralizzata, al costo di realizzare una sorveglianza in tutti gli aeroporti del mondo e in Israele di erigere una barriera di protezione, a sua volta criminalizzata dalla propaganda “progressista”.
Più efficace fu la presentazione della guerra razzista contro Israele come un ammirevole movimento di liberazione nazionale bisognoso di solidarietà, anche perché Israele cadde nella trappola degli accordi di Oslo e concesse ai terroristi sul terreno diplomatico ciò che non potevano conquistare militarmente: una base garantita dentro i confini controllati da Israele. Questo a sua volta incrementò per qualche tempo il terrorismo coi grandi attentati suicidi della “seconda intifada”. Ma, come ho già detto, questo terrorismo venne infine sconfitto e resta marginale o nello spazio (Gaza) o nelle dimensioni (lo stillicidio degli attacchi sanguinosi ma “a bassa intensità”).
La grande strategia palestinista entrò in una seconda fase, concentrandosi allora sulla costruzione della solidarietà internazionale con la “lotta di liberazione nazionale”, in particolare sulla finzione del “processo di pace” (usato astutamente con l’obiettivo di sottrarre a Israele fette successive di sovranità, “come si mangia un salame”, secondo l’espressione di Arafat), sulla conquista di legittimità internazionale e sulla riduzione di Israele a Stato-paria. Questa strategia si basava su una doppia premessa sottoscritta dalla “comunità internazionale”, o almeno dai grandi poteri come Usa, Russia, Cina, Europa e naturalmente dal mondo islamico e arabo: che cioè in primo luogo non può esserci pace in Medio Oriente senza un accordo fra Israele e “palestinesi”, e che in secondo luogo essa può essere a sua volta realizzata solo quando Israele cedesse abbastanza territori e sovranità per dar soddisfazione alle “legittime richieste del popolo palestinese”. Anche questa premessa fu disgraziatamente accettata dalla sinistra israeliana, che quando fu al potere offrì (per esempio con Barak e Olmert) tutta la terra al di là della linea verde e anche qualcosa in più ai palestinisti, promettendo loro uno stato, senza naturalmente ottenere la loro “soddisfazione”, anzi accumulando rifiuti sdegnosi. Perché la soddisfazione palestinista, come è chiarissimo da statuti, stemmi, simboli, propaganda televisiva, testi scolastici, non si poteva realizzare se non “riportando” la “Palestina” ai “suoi confini storici” (peraltro mai esistiti nella storia), vale a dire “dal fiume al mare”, con la conseguenza implicita della distruzione dello Stato di Israele e magari di un altro genocidio degli ebrei.
Insomma, questa grande strategia palestinista consisteva nel dirsi sempre oppressi e insoddisfatti, nel negare la pace e anche le trattative, attendendo che qualcuno facesse loro altri regali come quelli di Oslo, o semplicemente soffocasse Israele sul piano economico, politico e diplomatico, costringendolo ad accettare il proprio suicidio . E però le premesse di questa posizione sono molto deboli. Perché si è visto molte volte (con la guerra Iran-Iraq, con le due guerre del Golfo, con l’Isis, con la guerra civile che qualche sciocco dieci anni fa chiamò “primavera araba”, con l’imperialismo iraniano) che la pace in Medio Oriente non dipende affatto da Israele. E perché il popolo israeliano, facile a entusiasmarsi e dunque anche a farsi a ingannare, non è però affatto stupido e impara dall’esperienza, per cui non si affida più alle forze politiche del “fronte della pace”; e inoltre lavora sodo, è creativo e ha costruito un’economia e una difesa fra le prime al mondo. Ma, anche se le basi erano fragili, la seconda grande strategia palestinista (quella politica) ha retto molto più a lungo della prima (quella “terrorista”) sulla base del consenso,tutto sommato antisemita, dei potenti del mondo: i “progressisti” americani come Obama, la burocrazia europea, gli eredi del KGB che governano la Russia ecc.
Poi è arrivato qualcuno (Trump) che ha visto l’infondatezza di questa costruzione, con l’onestà e l’ostinazione del bambino che vede il re nudo. E la grande strategia palestinista, nel giro di pochissimi anni, è rimasta impotente e inerte. Biden appartiene da decenni allo stesso schieramento che sostiene “i legittimi diritti del popolo palestinese”. Ma difficilmente potrà far funzionare di nuovo quella strategia. Perché buona parte dei governi, e ormai anche dei popoli arabi, hanno capito che è insensato per loro far dipendere le loro sorti dai capricci dei vecchi ladri che tiranneggiano a Ramallah e dei fanatici religiosi (ma ladri anch’essi) che spadroneggiano a Gaza. Israele non è una costruzione politica effimera che si abbatta con una spallata militare o con un boicottaggio, è destinato a restare e con esso i popoli arabi hanno grandi interessi militari, economici, culturali, politici in comune da sviluppare assieme con grandi vantaggi reciproci: non solo il contenimento di Iran e Turchia, ma anche per esempio lo sviluppo tecnologico che permette a Israele l’autosufficienza energetica ed ecologica e può essere ben sfruttato nelle difficili situazioni climatiche degli stati arabi.
I palestinisti (e i loro alleati, europei in testa) hanno finora risposto a questi sviluppi solo dicendo di no, ma con una sostanziale impotenza. Riusciranno a inventarsi una nuova grande strategia? O dovranno alla fine prendere atto della situazione e seguire il copione della normalizzazione? Questo è il dilemma dei prossimi anni, che dipenderà anche molto dalla saggezza del governo israeliano. Finora Netanyahu, diffamato e odiato dalla sinistra (ma purtroppo non solo da essa) ha governato questo processo storico con abilità fenomenale. C’è solo da sperare che possa continuare o che chi verrà al suo posto abbia la stessa lucidità e la stessa comprensione della grande strategia israeliana.