Quel razzismo “politicamente corretto” che sta dilagando negli Stati Uniti. Sono passati settant’anni dalla solenne dichiarazione di Parigi, in cui l’Unesco dichiarava che “il termine “razza” indica un gruppo umano caratterizzato da alcune concentrazioni, relative a frequenza e distribuzione, di particelle ereditarie (geni) o caratteri fisici, che appaiono, oscillano, e spesso scompaiono nel corso del tempo a causa dell’isolamento geografico […] non vi è alcuna prova che i gruppi dell’umanità differiscano nelle loro caratteristiche mentali innate, riguardo all’intelligenza o al comportamento”. E quasi sessanta da quando Luigi Cavalli Sforza ha dimostrato per la prima volta in maniera scientifica, usando l’analisi del DNA delle popolazioni, che vi è molta più variabilità interna a ogni gruppo umano di quella che separa i diversi gruppi e che dunque “razza” è un concetto insostenibile sul piano scientifico.
Eppure, a leggere i giornali, il razzismo sembra straordinariamente diffuso e potente, tanto che sotto a questa etichetta vengono raggruppati fenomeni molto precedenti alla sua formulazione, come l’odio per gli ebrei (antigiudaismo o antisemitismo che sia). Ma che cosa vuol dire esattamente la parola “razzismo”? Si può ragionare a partire da alcune definizioni molto basilari. Per la Treccani è “ideologia, teoria e prassi politica e sociale fondata sull’arbitrario presupposto dell’esistenza di razze umane biologicamente e storicamente «superiori», destinate al comando, e di altre «inferiori», destinate alla sottomissione, e intesa, con discriminazioni e persecuzioni contro di queste, e persino con il genocidio, a conservare la «purezza» e ad assicurare il predominio assoluto della pretesa razza superiore”. Per Wikipedia “Il termine razzismo nella sua definizione più semplice si riferisce a un’idea, spesso preconcetta e comunque scientificamente errata […] che la specie umana […] possa essere suddivisibile in razze biologicamente distinte, caratterizzate da diverse capacità intellettive, valoriali, etiche e/o morali, con la conseguente convinzione che sia possibile determinare una gerarchia secondo cui un particolare, ipotetico, raggruppamento razzialmente definito possa essere definito superiore o inferiore a un altro”. Per il governo svizzero, infine “Il termine «razzismo» designa un’ideologia che, fondata su una suddivisione degli esseri umani in gruppi supposti naturali (le cosiddette «razze») in base all’appartenenza etnica, nazionale o religiosa, giustifica la supremazia di uno sugli altri. Le persone non sono giudicate e trattate come individui, ma come appartenenti a gruppi pseudo-naturali con caratteristiche collettive ritenute immutabili”.
I punti decisivi qui sono due: la divisione dell’umanità in gruppi ereditari a seconda di certe caratteristiche fisiche (innanzitutto il colore della pelle) e l’attribuzione ad uno o alcuni di questi gruppi diritti e meriti superiori, che attribuiscono loro il diritto di prevalere in maniera più o meno violenta sugli altri. Ed è proprio su questi punti che bisogna valutare l’esistenza e l’estensione del razzismo contemporaneo. E’ chiaro che ci sono ancora coloro che riproducono le vecchie barbarie naziste: ci sarebbe una “razza ariana”, naturalmente “superiore” che avrebbe diritto di dominare tutte le altre e magari di distruggerle perché “inferiori” e “dannose”. Per fortuna sono pochissimi e del tutto screditati. Il che naturalmente non vuol dire negare che esistono differenze fra le persone, ingiustizie, oppressioni; ma semplicemente negare che esse siano giustificate dalla biologia.
Ma esiste oggi un’altra forma di razzismo, prevalentemente ospitata negli Stati Uniti, ma come tutte le mode americane in via di espansione nel resto del mondo – tanto più facile da diffondere quanto più in perfetta buona fede, con la pretesa di essere “politicamente corretta”, “progressista”, perfino “antirazzista”. E’ la forma per cui “Black Lives Matter”(BLM), le vite dei neri contano – il che è perfettamente giusto perché “Every Life Matter”, ogni vita conta; ma quest’ultima generalizzazione è esattamente quel che i militanti di tale movimento negano. Per loro vi è una differenza di principio fra la vita dei “neri” (o più in generale delle persone “di colore”) e le altre: le prime sono importanti e vanno affermate, le altre no, sono un peso o un’oppressione.
Per testimoniare di questo nuovo razzismo propongo una fonte indiscutibile, il “New York Times”, che da giornale orgoglioso di separare i fatti dalle opinioni è diventato il portavoce delle forme più estreme di antitrumpismo, compreso il BLM. In questo articolo di qualche giorno fa il quotidiano ha preso in esame “922 fra le persone più potenti d’America”, scelte peraltro con criteri poco chiari e per mostrarne l’insufficiente “diversità” (che viene presentata senza spiegazioni come un valore in sé), non ne considera la provenienza geografica o sociale, né il sesso e neppure l’orientamento sessuale, ma l’appartenenza “razziale”. Dunque a ogni individuo di un gruppo molto qualificato di politici, imprenditori, accademici, generali, viene applicata un’etichetta di “razza”: Tizio è “bianco”, Caio è “nero”, Sempronio è “ispanico” o “asiatico”. Già di per sé, dal mio punto di vista, si tratta di un indegno atto di razzismo. Dall’inchiesta viene fuori che dei 922 “potenti”, “solo” 180 sono “di colore”. dovrebbero essere di più, sostiene il giornale, suggerendo politiche di “quote razziali” come quelle utilizzate da certe università americane sotto il nome di “azione affermativa”, e molto contestate anche in tribunale, perché selezionano non i più bravi, ma quelli che hanno il “colore” giusto.
Del resto la divisione in “razze” della società americana è fortunatamente molto incerta. Come scrive ancora Wikipedia “gli americani bianchi sono la maggioranza razziale. Ispanici e latinoamericani sono la più grande minoranza etnica, che comprende circa il 18% della popolazione. Gli afroamericani sono la seconda minoranza razziale, che comprende circa il 13,4% della popolazione. La popolazione bianca, non ispanica o latina costituisce il 61% del totale della nazione, con il 77% della popolazione bianca totale (inclusi ispanici bianchi e latini)”. Secondo quest’ultima cifra, l’80% di potenti “non di colore” rappresenta una buona approssimazione della “diversità” della popolazione americana. Come decidere chi è “bianco” e chi è “di colore”? Un articolo di commento di Daniel Greenfield mostra con molti dettagli concreti quanto conti il pregiudizio: per esempio “gli arabi musulmani sono di colore, gli arabi cristiani sono bianchi”, come peraltro gli ebrei e gli italiani, salvo che le loro famiglie emigrate dall’Europa orientale abbiano soggiornato per una generazione o due in Sudamerica, perché questo fatto li trasforma in “ispanici” e dunque “di colore”.
Vale la pena di leggere l’articolo di Greenfield per capire concretamente l’assurdità del nuovo razzismo “politicamente corretto” che sta diventando obbligatorio nella cultura “progressista” contemporanea. Di fronte a questo “razzismo dell’antirazzismo” vale la pena di tornare a rispondere come fece Albert Einstein quando gli fu sottoposto un questionario sulla sua appartenenza etnica: “Razza? ‘Umana’.”