L’azione della International Criminal Court (ICC) e la bancarotta dell’Autorità Palestinese
Apparentemente, è solo un episodio minore della lunga guerra giudiziaria (“lawfare”) e diplomatica che l’Autorità Palestinese conduce in tutte le sedi internazionali per cercare di danneggiare Israele e di erodere il suo status legale, in genere benissimo accolta dagli organismi sovranazionali come Unesco, Commissione Onu per i diritti umani, Unione Europea che sono dominati da una maggioranza terzomondista e dal “pensiero unico” che si definisce antimperialista. Ma come vedremo, c’è qualcosa di più.
Il fatto è questo. La procuratrice generale della Corte Criminale Internazionale (ICC – International Criminal Court) Fatou Bensouda da qualche mese sta cercando di portare a processo Israele per violazione della legge internazionale, principalmente su due punti: pretesi crimini di guerra commessi nelle operazioni difensive condotte a Gaza contro il terrorismo di Hamas e altrettanto pretesi crimini commessi nell’ “occupazione” di Giudea e Samaria. Bisogna sapere che la ICC ha dei limiti d’azione molto stringenti. Fra essi da un lato la corte non ha giurisdizione se non sugli stati che hanno aderito al trattato di Roma che l’ha istituita, e Israele come gli Usa non l’ha fatto; dall’altro può essere messa in gioco solo dalla denuncia di uno stato e non da privati, organizzazioni, istituzioni non statali. Infine la corte non può agire se lo stato interessato ha già messo sotto inchiesta i fatti denunciati, con un procedimento legale sufficientemente articolato e condotto secondo i principi della legalità. Dato che il sistema giudiziario in Israele è molto attivo e chiaramente indipendente, quest’ultima clausola impedisce preventivamente l’intervento della ICC su casi come quelli della presa della nave Mavi Marmara della flottiglia di qualche anno fa, o quelli degli scontri a Gaza, che sono stati indagati dai tribunali israeliani.
L’Autorità Palestinese ha sollecitato l’intervento della corte, ottenendo il pieno appoggio di Fatou Bensouda sul problema dell’ “occupazione” di Giudea e Samaria. Ma la corte non è competente sul territorio israeliano, dato che Israele non vi aderisce. Allora Bensouda ha cercato di dimostrare che l’Autorità Palestinese è uno stato e dunque ha diritto a chiederne l’intervento per quanto riguarda il suo territorio; per confermare questa tesi molto discutibile, la procuratrice ha investito una pre-trial Chamber (una specie di giudice delle indagini preliminari), con la fondata convinzione che nonostante gli interventi di molti stati che hanno espresso parere contrario a questa estensione della competenza della International Criminal Court (fra essi USA, Australia, Ungheria, Gran Bretagna) la corte le avrebbe accordato il permesso di iniziare le sue indagini.
A questo punto però è venuta fuori la dichiarazione del dittatore dell’Autorità Palestinese Mohamed Abbas, che in seguito all’intenzione israeliana di aderire al progetto Trump e di estendere la propria sovranità alle zone di Giudea e Samaria interessate al progetto, ha dichiarato di rifiutare gli accordi di Oslo. Ma a parte i problemi politici e di sicurezza che questa mossa pone, vi è una delicata questione legale: Se Ramallah insiste sul fatto che gli accordi del 1993 sono ormai in disuso, potrebbe minare le sue pretese di sovranità come lo “stato della Palestina”, poiché fu Oslo a concedergli una prima misura di autonomia nella regione. Rinunciare a Oslo potrebbe essere visto come una resa di quella sovranità, e con essa qualsiasi diritto di presentare un caso nella ICC. Se, d’altra parte, i palestinesi rispondono che la loro dichiarazione che taglia i legami con Israele in qualche modo non ha influenzato la struttura di Oslo, avranno difficoltà a spiegare la loro posizione, perché nel trattato vi è una proibizione esplicita a ricorrere a giurisdizione esterne. La pre-trial chamber ha dunque ordinato a Bensouda di chiedere all’AP se considera l’accordo ancora valido o meno.
La risposta è uscita pochi giorni fa. Sia pure con qualche contorsione e con la distinzione fra piano politico e piano giuridico, l’AP ha risposta di considerarsi “esente” dagli accordi di Oslo. Esente sì, ma senza tornare a Tunisi, da dove Oslo disgraziatamente li trasse fuori e li trasferì in Giudea, Samaria e Gaza. Che cosa farà Israele a questo punto non è ben chiaro, a parte non rispondere alla International Criminal Court, che non considera competente. Perché se l’accordo di Oslo non c’è più, con esso decadono tutti gli obblighi dello stato ebraico nei confronti dell’AP (salvo quelli di assistenza alla popolazione, che derivano da principi internazionali). Dunque nessuna impunità, nessun finanziamento, nessuna garanzia diplomatica, nessun riconoscimento dell’autonomia.
Naturalmente a Israele non conviene subentrare nell’amministrazione della popolazione araba, e per questa ragione non spianterà il sistema di potere di Abbas e compari. Ma è chiaro che sul piano giuridico e diplomatico, l’Autorità Palestinese senza Oslo è un’organizzazione illegale, che controlla in parte un territorio, un po’ come certe mafie o gruppi terroristi in vari stati sudamericani e arabi. Probabilmente questi sviluppi verranno alla luce piani piano, ma essi sono importanti e potrebbero permettere a Israele, se ne avesse la determinazione, di rimediare all’errore principale di Oslo, quello di trattare con l’organizzazione terrorista OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) invece che con i capotribù locali (perché la popolazione araba anche in Giudea e Samaria è divisa in tribù semiautonome, con cui è possibile fare accordi).
Infine, un’ultima conseguenza che mostrerà anch’essa la sua importanza in futuro. Nel diritto commerciale, quando una persona o un’organizzazione dichiara di non riconoscere più i suoi obblighi, si dice che ha fatto bancarotta, il che a certe condizioni è un reato penale, ma soprattutto annulla il suo credito: chi presterebbe denaro o accorderebbe una vendita a rate a qualcuno che ha mostrato di non onorare i suoi debiti? Quel che ha fatto Abbas è una bancarotta politica: ha dichiarato di non voler più far fronte ai suoi obblighi solennemente assunti nel contesto internazionale. E’ vero che i palestinisti non hanno mai rispettato davvero Oslo, che imponeva loro fra l’altro di accettare l’esistenza di Israele e di abolire il terrorismo. Ma un conto è non pagare i debiti, un altro è dichiarare ufficialmente che se ne è esenti, cioè si disconoscono gli accordi. In futuro dunque tutti quelli che parlano di “accordi di pace”, “trattative”, “riconoscimenti” eccetera, dovranno spiegare che senso ha firmare con i palestinisti dei trattati che essi si ritengono liberi di annullare quando farà loro comodo. Anche questa non è una novità, perché subito dopo Oslo, Arafat dichiarò in un discorso in arabo a Johannesburg che si sentiva tanto legato al trattato quantoMaometto lo era stato con l’accordo di al-Ḥudaybiyya (628) con i suoi nemici della Mecca, che aveva stracciato alla prima buona occasione. Ma qui abbiamo non solo una spiegazione ai suoi sostenitori, bensì una dichiarazione ufficiale a una corte internazionale. E dunque ai sostenitori della “pace” resterà sempre da rispondere alla classica domanda dei gialli americani: comprereste una macchina usata da un tipo come lui?