Elezioni Israele 2020. I risultati del voto in Israele, non definitivi ma abbastanza chiari al momento in cui scrivo, suggeriscono un paio di riflessioni al di là della cronaca politica immediata.
La prima è questa: nell’immenso spazio geopolitico fra la Tunisia e l’India (escluse), fra il Mediterraneo e il Sudafrica e l’Oceano Indiano, Israele è il quasi il solo posto dove da oltre settant’anni si svolgono elezioni multipartitiche regolari e incontestate, spesso con risultati che nessuno aveva previsto, come questa volta. Sarà noioso dover andare alle urne tre volte in un anno, perché non esce una maggioranza chiara; ma ogni persona onesta ammetterà che non c’è confronto con gli scontri militari in Siria, Libia, Yemen, le monarchie assolute del golfo, le dittature con elezioni di rappresentanza come in Egitto e Iran, o quella buffa situazione dell’Autorità Palestinese in cui vi è un presidente eletto per quattro anni che è entrato nel quindicesimo anno di presidenza e nessuno si sogna di schiodarlo dalla sua carica se non degli altri aspiranti autocrati ancora più crudeli e meno democratici di lui. Bisogna ricordare questo fatto, che non è affatto un dettaglio, anche a coloro che non solo distinguono fra antisionismo e antisemitismo (mentre la prima di queste aberrazioni è sempre espressione della seconda), ma anche fra stato di Israele, governo israeliano e le sue politiche, come tendo a fare personaggi come Sanders, che si dicono “Pro-Israele” ma nemici del suo “governo reazionario e razzista”. E’ vero che per costoro vale la battuta, credo di Golda Meir a proposito di Haaretz: “l’ultimo governo di Israele che ha appoggiato era quello britannico del Mandato”. Ma comunque bisogna sapere che il governo israeliano e le sue politiche sono scelte fra un’ampia offerta politica, dagli elettori di Israele, cioè da una buona metà del popolo ebraico (più naturalmente i cittadini non ebrei) e dal popolo democraticamente consultato.
La seconda considerazione riguarda la composizione di questo elettorato. Quasi il 13% dei voti sono andati alla “lista unita” che non si caratterizza tanto per la sua prevalente etnicità araba, ma per la radicale opposizione al progetto sionista. Come se in Italia ci fosse una lista borbonica che si oppone non etnicamente al Nord, ma al progetto fondamentale di uno stato unitario italiano. Bisogna anche notare che i suoi elettori non sono tutti gli arabi (ce n’è che votano per altri partiti, sparsi per tutto l’arco politico) né tutti arabi (gli estremisti di sinistra più radicali la votano contro il progetto sionista anche se sono ebrei). Il 14% sono charedim, gli elettori strettamente religiosi dei due partiti sefardita e askenazita. La destra, inclusi i religiosi sionisti ha il 5% dei voti, il Likud ha il 29 %. Insomma il blocco di governo arriva circa al 47% (che in seggi sono di più per un lieve effetto maggioritario del calcolo elettorale). Se si escludono gli antisionisti, c’è anche una netta maggioranza di elettori. Dall’altra parte i bianco-azzurri di Ganz arrivano al 26 e la sinistra supera il 5. Il totale fa il 32% degli elettori nel blocco di Gantz. Infine un po’ meno del 6% dei voti va a Israel Beitenu di Lieberman, che ideologicamente sarebbe di destra (e in tutte queste elezioni se avesse rispettato questa impostazione avrebbe fatto largamente superare la maggioranza al blocco di governo), ma si è associato a Gantz per odio a Netanyahu e ai charedim.
Elezioni Israele 2020. Al di là del risultato numerico e della capacità che Netanyahu potrà avere o meno di attirare un paio di depoutati della minoranza per avere il governo (altrimenti si finisce diritti filati alle quarte elezioni perché non vi è una soluzione di sinistra), in Israele si conferma un orientamento nettamente di destra, ancor di più nell’”arco costituzionale” (per applicare un po’ impropriamente ma non troppo una terminologia italiana al caso israeliano) di chi condivide l’impostazione sionista. Questo è un risultato consolidato ormai da decenni: gli israeliani, dopo i risultati di Oslo e del progetto “territori in cambio di pace”, non si fidano della sinistra e non la vogliono al governo, tanto meno in un momento molto difficile come questo.
Vale la pena di aggiungere che questo orientamento non è stato modificato dalla massiccia posizione a favore dei democratici (e dunque anti-Netanyahu) della maggioranza della comunità ebraica più importante della diaspora, quella americana. Ma soprattutto non lo è stato dall’incriminazione di Netanyahu per corruzione, che autorevoli giuristi internazionali come Alan Dershowitz avevano giudicato impropria ed esagerata e che evidentemente non è parso fondato neppure all’elettorato israeliano. Adesso naturalmente il processo farà il suo corso, ma le elezioni mostrano che per buona parte degli elettori Netanyahu resta il più adatto a governare Israele.
Visto a posteriori, questo risultato dipende anche dalla debolezza e dalla genericità del programma dello schieramento anti-Netanyahu, che non era riuscito a indicare una linea politica (economica, internazionale e di sicurezza) alternativa a quella perseguita con successo dall’attuale maggioranza negli ultimi dieci anni. E magari anche dalla personalità sbiadita e politicamente poco competente di Gantz. La speranza è che ora il governo si possa comporre rapidamente e che Israele possa affrontare il futuro prossimo, ricco di possibilità nuove, ma anche di pericoli, con un esecutivo nel pieno possesso dei suoi poteri.
Elezioni Israele 2020