Un piccolo episodio accaduto a Toronto, in Canada mi aiuta a fare una cosa che desideravo da tempo, cioè rilanciare un articolo importante pubblicato su Progetto Dreyfus da Alex Zarfati, che non ha avuto tutta l’eco che meritava. Zarfati difende l’autonomia degli ebrei italiani dalla speculazione massiccia che negli ultimi tempi si è abbattuta su di loro, da sinistra come da destra, prendendo come pretesto la faccia pulita e la storia tragica della senatrice Segre. Sono d’accordo con Zarfati quasi su tutto e invito i miei lettori a leggere il suo contributo. Ma c’è un punto su cui mi sento di offrire una riflessione ulteriore, un punto importante, che è il rapporto degli ebrei con Israele.
Per spiegare la mia posizione parto da un piccolo episodio che non ha attirato l’attenzione di quasi nessuno in Italia. Toronto è la più grande città del Canada, ha 2,7 milioni di abitanti e di essi circa 200 mila sono ebrei, con un peso economico e culturale importante sulla città. La settimana scorsa è accaduto questo: il comitato rappresentativo dell’unione degli studenti dell’università di Toronto si è opposto a una richiesta di rendere disponibile cibo kasher nelle mense dell’università, argomentando che il cibo kasher è “pro-Israele”. Il cibo kasher, per chi non lo sapesse, è quello che risponde ai requisiti religiosi stabiliti nel Pentateuco: certi animali e non altri sono kasher (per esempio bovini e ovini non maiali, cani, gatti, conigli), certe parti non sono kasher (per esempio non la zona intorno al nervo sciatico e il grasso dei reni), certe preparazioni lo sono e altre no (per esempio non la mescolanza di cibi derivanti dalla carne e latte e latticini), ecc. Non è questo il luogo per dettagliare, né per spiegare le ragioni religiose, antropologiche, sanitarie di queste scelte, che risalgono a tre millenni fa e non hanno nulla a che fare con lo stato di Israele. L’osservanza di queste norme alimentari, fra le altre cose, è stata una delle caratteristiche tenute ferme da tutte le comunità ebraiche nei secoli nei continenti. L’opposizione degli studenti di Toronto a questa normativa non può aver nulla di specificamente politico, perché la politica non c’entra, dice semplicemente che essere ebrei nella loro università non va bene, perché gli ebrei sono strutturalmente filo-israeliani. Ma essere contro gli ebrei è antisemitismo aperto, cioè una posizione che in Canada come da noi non si può civilmente sostenere, e quindi alla fine l’unione degli studenti ha rinunciato alla sua posizione e ha chiesto scusa.
In una dialettica simile si è avvolto molto spesso Jeremy Corbyn e il suo partita laburista (e molti altri a sinistra,anche in Italia): accusato di essere contro gli ebrei perché appoggiano Israele, Corbyn deve aver trovato nelle accuse in sostanza la dimostrazione delle sue ragioni: gli ebrei non sono solo pro-Israele, ma anche contrari a lui e al suo partito, quindi sono dei nemici, anche se questo non si può dire per non confermare le accuse. Il risultato è stato una serie di mosse tutte sbagliate: smentite, rifiuto delle accuse, protezione degli antisemiti espliciti nel suo partito e poi distacco da loro quando smascherati, tentativo di trovare appoggio in qualche ambiente ebraico, anche del tutto antimoderno e reazionario come i Naturei Karta.
Zarfati in un passaggio del suo articolo si oppone giustamente a questa dinamica malata, ma aggiunge a un certo punto: “Noi ebrei non vogliamo più che la nostra religione – l’ebraismo – sia confusa con una nazionalità – quella israeliana.” Questo è vero fino a un certo punto, perché l’ebraismo, dai tempi biblici a oggi, non è mai stato solo una religione (né nel senso ristretto di una fede, né in quello più allargato e corretto in questo caso di una “forma di vita” che implica costumi alimentari e familiari, feste, liturgie, rapporti commerciali, lingua e tante altre cose ancora). Quello ebraico è definito dalle Scritture “popolo”, in quanto popolo riceve il dono della Torah al Monte Sinai, e in quanto popolo condivide un destino storico comune per gli ultimi 35 secoli almeno. Il suo essere modo di essere popolo, come è raccontato per esempio nel libro dell’Esodo, è stato il modello per la definizione moderna di nazione. Questo è un dato di fatto per gli studiosi che hanno studiato l’idea di nazione e quelle di rivoluzione come Antony D. Smith (“La nazione. Storia di un’idea”, Rubettino), Michael Walzer (“Esodo e rivoluzione”, Feltrinelli) e da ultimo il bellissimo libro di Yoram Hazony (“Le virtù del nazionalismo”, Guerini), appena uscito, che consiglio a tutti caldamente di leggere. Insomma gli ebrei non sono stati la prima nazione, ma i primi che nella loro cultura hanno identificato l’idea dell’indipendenza nazionale come libertà dai grandi imperi del tempo (Egitto, Persia, Assiri, babilonesi).
Ma al di là di questi dati storico-culturali, resta un fatto fondamentale: il popolo ebraico fa corpo anche quando è disperso in mezzo ad altri popoli, ed è una conseguenza importante quel che il Talmud dice: tutti gli ebrei sono responsabili gli uni per gli altri. Può piacere o meno, ma quando qualcuno ci interpella rispetto a come è e cosa fa Israele, la risposta giusta non è “io non c’entro, abbiamo solo una religione in comune”, ma spiegare come gli immensi progressi dello stato di Israele ci inorgogliscano e le sua necessità di difendersi contro un assedio che in una forma o nell’altra dura da un secolo, prima ancora della fondazione dello Stato, ci trovi partecipi, simpatetici, sostenitori. Perché la maggioranza del popolo ebraico ha fatto negli ultimi cent’anni la scelta collettiva di tornare alla terra dei padri dopo l’esilio che ci era stato imposto e questo riguarda tutti, anche quelli che non concordassero con qualche scelta del parlamento e del governo israeliano. Perché tutti abbiamo parenti, amici, simboli culturali e religiosi in comune, perché è in Israele che si parla la millenaria lingua degli ebrei, perché il contributo culturale, artistico, scientifico, economico, tecnologico, religioso che gli ebrei hanno sempre dato all’umanità ormai si è reimpiantato in Israele e si svolge soprattutto lì. Questo naturalmente non vuol dire non amare l’Italia o non essere buoni cittadini italiani. Proprio il nostro essere ebrei, l’appartenenza a una nazione antica che ha dato tanto alla cultura europea e mondiale che molti parlano delle radici “giudaiche” (cioè ebraiche) dell’Occidente, ci permette, anzi ci obbliga a essere buoni cittadini italiani, come si è visto nel Risorgimento e nella Resistenza, nella letteratura (da Svevo a Moravia, per fare solo due nomi), nell’arte (nomino solo Modigliani), nell’economia e nella scienza, nella politica e nell’industria.
Sono sicuro che Alex Zarfati condivide quel che ho scritto, come la grande maggioranza degli ebrei italiani che amano Israele e anche l’Italia, l’Italia e anche Israele. Mi sembrava però importante riprendere il suo pensiero e provare a svilupparlo, perché su questi temi marciano tutti gli antisemiti, in primo luogo quelli che per ipocrisia si definiscono antisionisti.