Scorrendo i media di questi giorni ho provato a contare quante volte ci fosse il termine “ebreo”. Si parla della legge sull’antisemitismo? Ci siamo. Si parla delle esternazioni razziste di qualche sindaco di provincia? Ci siamo. Si fanno elucubrazioni sull’ingovernabilità di Israele? Ci siamo.
Noi ebrei. Incredibile come una minoranza religiosa così piccola riesca ad ottenere una copertura mediatica così ampia. La vicenda Segre ha scoperchiato un tegame in cui emergono accuse incrociate di liberticidio, sovranismo, nazionalismo, andando ben oltre alle vicende della Commissione Straordinaria del Senato. L’antisemita complottista dirà che questo è il frutto della capacità di controllare i media che hanno gli ebrei, che tengono in scacco per ricavarne un vantaggio.
Ma non è così. Perché ogni volta che veniamo tirati in ballo si ha il solo effetto di dare la stura a migliaia di reazioni di stizza, insofferenza, accuse di protagonismo, controllo dell’informazione e volgarità di ogni tipo. La sovraesposizione mediatica piuttosto ci danneggia, ma noi ebrei, sembrerà incredibile ai più, non riusciamo a contenerla, men che meno ad orientarla. Infatti il triste epilogo della Commissione Segre è stato quello di dover ricorrere all’assegnazione della scorta all’ex sopravvissuta ad Auschwitz, sollevando ulteriori insulti, come se fosse stata lei ad essersi andata a cercare le minacce.
Ma questo è il risultato di una pratica utile a tanti interessi. La destra tira in ballo gli ebrei – obiettivi preferiti dello jihadismo – per giustificare le sue teorie in fatto di immigrazione. La sinistra coinvolge gli ebrei perché nella lotta al razzismo saremmo i primi a fare le spese del suprematismo che avanza. Tutti raccontano di cavalcare battaglie in linea con gli interessi degli ebrei, ma che in realtà servono ai loro interessi. Le loro battaglie, nel nostro nome. Certo, molte di queste battaglie sono condivise anche da noi. Ma il fatto è che a nessuno viene in mente di valutarne gli effetti sulla vita di quel pugno di italiani di religione ebraica.
Noi ebrei. Da nominare quando ci si vuole rifare una verginità politica. Chiamati in causa durante le celebrazioni di facciata, in cui si fa la faccia triste con discorsi copia-incollati sulla Shoah senza il coraggio di fare paragoni con le minacce che subiamo nel presente. Che veniamo invitati come fossimo bestie rare da enti che il giorno dopo prontamente tornano a vomitare parallelismi tra sionismo e nazismo. Che prima veniamo dati in pasto all’opinione pubblica e poi accusati di eccessiva presenza mediatica. Che non abbiamo la possibilità fisica di orientare le conversazioni perché non abbiamo né i numeri né l’influenza che vogliono attribuirci.
Noi ebrei siamo 28mila, in Italia. Un decimo degli induisti. Solo qualche migliaio di più di Sikh e Bahà’i. Meno dei seguaci di Scientology e dei movimenti New Age e Next Age messi insieme. Allora irrilevanti statisticamente ma comunque influenti? Macché. Nonostante l’antisemita si spertichi per dimostrare che l’ebreo controlla i media, la politica e i CDA delle aziende che contano, non è capace di produrre che pochi nomi, sempre gli stessi, da decenni. L’amara realtà è che, a parte pochissime eccellenze, le comunità ebraiche italiane, per ragioni storiche, politiche ed economiche, non sono state in grado di produrre correligionari in grado di fare la differenza.
Certo. Noi ebrei contiamo tra le nostre file Albert Einstein, Michael Bloomberg, Jonas Salk, Leonard Bernstein, Henry Kissinger, Sigmund Freud, Sergey Brin o magari Harvey Weinstein. Ma questo non fa di noi persone più geniali, influenti o danarose di quanto non siamo riusciti a fare per conto nostro. Avere Mark Zuckerberg o Bernard Madoff come correligionario non fa di me un uomo più brillante o criminale di quanto Madre Teresa di Calcutta o Adolf Hitler non facciano di ogni cristiano un santo o un mostro.
Quello che qualifica noi ebrei italiani è l’operosità, la partecipazione civile alla vita del nostro paese – l’Italia! – condividendone le sorti, avverse e tempestose, com’è giusto che sia. Commercianti, artigiani, medici, operai, insegnanti, imprenditori, che vivono lontani dai riflettori e che fanno le spese dell’esposizione mediatica come fossero i terminali del gruppo Bilderberg. Trattati a volte da “nemici in casa”, quando è vero l’esatto contrario: perché la storia – quella vera – insegna che più di quanto hanno fatto i cattolici, gli ebrei italiani sono stati dalla parte dei Padri risorgimentali, dimostrando un attaccamento alla nostra Patria fuori del comune.
Noi ebrei abbiamo contribuito alla vita del paese come ce n’è stata data la possibilità: dall’assalto a Porta Pia – il capitano Giacomo Segre fu in prima fila con altri bersaglieri ebrei per conquistare la patria indipendenza – alla Grande Guerra, in cui l’Italia contava ben 50 generali ebrei ed uno di questi, Emanuele Pugliese, risulterà il più decorato dell’esercito. Era ebreo il segretario di Cavour, Isacco Artom, era ebreo Giacomo Malvano, direttore degli affari politici, segretario generale del ministero degli Esteri, senatore, presidente della Corte dei Conti. Era ebreo il generale Giuseppe Ottolenghi, ministro della Guerra nel 1902. Agli inizi del ‘900 l’Italia ebbe 3 Primi ministri di origine ebraica.
Quanto scrivo può sembrare evidente per chiunque abbia buon senso, eppure ancora oggi, noi ebrei, ci dobbiamo difendere da accuse di “doppia identità”, evoluzione moderna dell’infame calunnia medievale di impastare il pane azzimo con il sangue dei bambini cristiani. Ieri le sollevazioni popolari avvenivano in piazza, dove con falò e forconi a farne le spese erano gli abitanti di un villaggio ucraino o polacco. Oggi le sollevazioni avvengono sul piano digitale e gli sfoghi producono malumori che sfogano in minacce reali, come quelle che hanno portato all’assegnazione della scorta a Liliana Segre.
Noi ebrei. Da duemila anni cittadini orgogliosi del paese che abitiamo, che sentiamo nostro perché lo abbiamo costruito, difeso, partecipato e amato nonostante a fasi alterne fossimo stati esclusi dalla vita civile con le accuse più infamanti.
Noi ebrei non abbiamo chiesto alle squadre di calcio di indossare una stella gialla. Non imponiamo la lettura del Diario di Anna Frank, la programmazione di Shindler’s List, l’imposizione del Giorno della Memoria o le scorte ai nostri sopravvissuti minacciati.
Noi ebrei. Abbiamo solo una piccola pretesa: chiediamo ai compatrioti di non rinunciare mai ad informarsi su ciò che li circonda, perché le leggi razziali, il fascismo, l’attentato alla Sinagoga di Roma, le offese alla Senatrice Segre, non sono “storia ebraica”, ma “storia italiana”.
Noi ebrei non vogliamo più che la nostra religione – l’ebraismo – sia confusa con una nazionalità – quella israeliana – e sentirci apostrofare di “tornare a casa nostra”, quando sull’italico suolo mi sono guadagnato più diritto di stare di quelli che sputano sul tricolore o hanno voltato le spalle ai valori fondanti della Repubblica. Non abbiamo grosse pretese, ma siamo stanchi di essere guardati con sospetto quando si parla di noi malgrado noi, con il risultato che quando indosso la kippà mentre vado a comprare il latte io venga guardato come fossi l’avanguardia dei Savi di Sion che vogliono conquistare Roma.
Noi ebrei. Non siamo più ricchi o più poveri, più scaltri o più sciocchi, più di destra o di sinistra di ogni altro individuo con il quale lavoriamo ogni giorno fianco a fianco. Noi ebrei, che semplicemente vorremmo riappropriarci della libertà di poter essere uomini tra gli uomini, giudicati per le nostre opere e non per la proiezione ripetuta degli interessi di parte.