Questa volta sì. è vero, la causa prossima della battaglia che si svolge nei cieli sopra Israele con centinaia di missili indirizzati da Gaza sui civili delle città e dei villaggi israeliani e le rappresaglie dell’aviazione israeliana su obiettivi terroristici, è stata un’azione delle forze armate di Israele, l’eliminazione mirata del capo militare dell’organizzazione terroristica Jihad Islamica palestinese Baha Abu Al-Atta, avvenuta la notte fra l’11 e il 12 novembre scorso. Mentre scrivo i combattimenti sono ancora in corso ed è impossibile prevedere se si fermeranno con una nuova precaria tregua o si approfondiranno fino a un’azione militare in piena regola. Al di là della cronaca, vale la pena di porsi la domanda fondamentale se sia giusto compiere questo tipo di operazioni. “Giusto” però può voler dire “morale” e “legale” o “utile e opportuno” Le domande dunque sono due, entrambe importanti.
Sul piano morale non c’è dubbio che eliminare il responsabile militare della Jihad Islamica palestinese sia giustificato. Quest’organizzazione, alle dirette dipendenze dell’Iran (a differenza di Hamas che con l’Iran ha sì un’alleanza organica ma non un legame di subordinazione gerarchica totale) è stata responsabile della maggior parte degli attentati degli ultimi anni. Mentre Hamas governa Gaza e, volendo conservare il suo possesso, è costretta a riflettere e misurare le sue azioni sulla possibilità che Israele decida non di eliminarla del tutto, il che è quasi impossibile nel breve termine, ma di detronizzarla e ridurla in clandestinità, la Jihad Islamica palestinese non ha responsabilità di governo, vuole crescere e farsi notare perché ha meno terroristi di Hamas, è già quasi in condizione di clandestinità e risponde meno sia alle rappresaglie israeliane sia alle pressioni crescenti degli abitanti di Gaza che sopportano male la trasformazione delle loro case in infrastrutture terroristiche e la loro stessa riduzione a ostaggi e scudi umani per i terroristi. Di conseguenza nell’ultimo periodo è stata sempre la Jihad Islamica palestinese ad attaccare Israele con missili e altri strumenti terroristici. E’ sicuro che avesse in cantiere nuovi attacchi. Eliminarne il capo significa sconvolgere questi piani, salvare vite umane innocenti. Sul piano legale, è in corso un conflitto armato; anche se i terroristi non rispettano le leggi di guerra sono sempre combattenti, benché irregolari. Colpire un capo militare, badando bene a cercare di non coinvolgere civili, è un atto bellico legittimo.
Dell’utilità ho già iniziato a parlare. Senza dubbio un attacco del genere scombina piani di attentati ben più pericolosi della rappresaglia disordinata e un po’ isterica inscenata dai terroristi. Esso inoltre ha un costo organizzativo grave per il movimento terrorista. Organizzazioni irregolari del genere si basano molto sul prestigio personale e sull’autorità dei dirigenti. E’ vero che morto un capobandito ne arriva sempre un altro e poi un terzo, ma il loro seguito, il loro ascendente sui terroristi, la loro esperienza non sarà la stessa. Bisogna aggiungere che un attacco del genere è anche un messaggio: ai capi terroristi degli altri gruppi, che magari si illudono di essere troppo importanti per diventare un obiettivo, dice che Israele non ha paura di colpire i leader del terrorismo: all’Iran, perché è la continuazione di una campagna di Israele per impedire di essere accerchiato e ne mostra la determinazione su tutti i teatri di guerra, tant’è vero che contemporaneamente all’attacco di Gaza ce n’è stato uno a un altro capo della Jihad Islamica palestinese a Damasco, che è ormai territorio dominato dall’Iran. E anche al resto del Medio Oriente, per riconfermare la forza e il coraggio israeliano, l’accuratezza dei suoi servizi di informazione e la potenza delle sue armi.
Sbaglia naturalmente chi sostiene che Netanyahu ha deciso il colpo pensando alla trattativa per formare un governo. Le forze armate israeliane non lavorano certo contro il principale concorrente di Netanyahu, quel Gantz che è stato capo di stato maggiore fino a pochi anni fa ed è circondato da altri ex capi delle forze armate. Gantz del resto ha appoggiato l’operazione senza riserve. Semmai sono stati i partiti arabi a protestare contro l’esercito israeliano accusandolo di comportamenti “criminali”. Con questi discorsi hanno confermato quel che sapeva chiunque avesse un minimo di lucidità sulla politica israeliana: che sono contrari allo stato ebraico e alla sua autodifesa e che per questa loro posizione non possono far parte di alcuna maggioranza di governo, tanto meno in una posizione determinante. Il che comporta delle conseguenze significative sulla dialettica politica israeliana: a questo punto un governo Gantz di minoranza con l’appoggio determinante degli arabi non è possibile e restano solo due esisti alla crisi di governo: una larga maggioranza fra Gantz e il Likud coi suoi alleati o le terze elezioni che alcuni paventano ma non sono certo una catastrofe per la democrazia.
Cosa accadrà sul governo come sulla crisi di Gaza, naturalmente non possiamo saperlo. Ma è importante capire che il gioco fondamentale per Israele non si fa né alla Knesset né nel paziente lavoro di rendere inoffensive (o meno offensive che si possa) le belve terroriste. La partita vera è quella con l’Iran: una lunga partita a scacchi, in cui l’altro giorno, dopo attenta valutazione, Israele ha deciso di eliminare un pedone dei nemici. Ma il loro potere, i loro missili intercontinentali, il loro uranio, la corsa alle armi atomiche sono ancora sulla scacchiera. E presto il prossimo presidente del consiglio e il prossimo ministro della difesa di Israele, chiunque siano, dovranno fare scelte e prendere decisioni ben più difficili e impegnative. Ricordando sempre un principio militare che Israele ha applicato vittoriosamente fin dalla Guerra dei Sei giorni: la regola di anticipare le mosse del nemico, non precipitosamente, non senza lunga riflessione e attenta pianificazione, ma difendendosi per primo, quando l’attacco nemico si profila chiaramente, senza aspettare che possa realizzarsi e ottenere i suoi effetti.