Cinquant’anni di silenzio. Poi lo sfogo. Il racconto atroce di un tempo che nessun uomo avrebbe mai immaginato di vivere: la razzia dell’ex ghetto ebraico, la deportazione, l’inferno del campo di sterminio nazista di Auschwitz-Birkenau.
È stata parte della vita di Alberto Sed, scomparso all’età di 91 a Roma. Catturato nella capitale, assieme a sua madre e alle due sorelle, venne portato per un breve periodo a Fossoli, per poi essere condotto a Birkenau: lì gli venne tatuato il numero A-5491.
Vide morire la madre e le sorelle, di cui una sbranata dai cani delle SS. Una ferocia mai vista, al quale Alberto non riuscì a dare voce per molti tempo, neanche a moglie e figli.
Figli che appena nati non ha tenuto in braccio. Per un motivo, lo raccontò proprio lui anni fa:
“Non sono mai riuscito a prendere in braccio un neonato, nemmeno i miei figli, perché ad Auschwitz i nazisti ci facevano tirare in aria bambini di pochi mesi e si divertivano a ucciderli, come nel tiro a piattello”.
Un episodio agghiacciante, uno dei tanti accaduti davanti agli occhi di Alberto:
“Non sono mai riuscito a entrare in una piscina, perché ho visto un prete ortodosso massacrato e annegato dai carnefici”.
Alberto Sed parlò anche del suo amico Lello Efrati, straordinario pugile dalla vita incredibile:
“Al campo di Birkenau i fascisti lo conoscevano, hai voglia se lo conoscevano. Era il pugile ideale per le scommesse. Un grande peso piuma contro un bel peso medio, e giù soldi, tanti soldi. Non c’era il ring, solo il piazzale e loro che urlavano, si divertivano, giocavano. Noi assistevamo agli incontri, ma con che spirito. I tedeschi davano a chi combatteva un premio, spesso un pezzo di pane. Efrati si faceva onore, ma poi un giorno tutto finì. Quando il fratello fu malmenato da un kapò, si rifece. Allora i tedeschi lo ridussero a un moribondo, e ogni sera le SS tornavano al suo blocco per vedere se stava ancora in piedi. Chi cadeva non aveva scampo, e così Lelletto finì ai forni crematori”.
Anni fa, Alberto venne intervistato dal sito della Roma, squadra di cui era grande tifoso:
“Mi chiamavano ‘Il piccolo Amadei’, perché ero nato con il pallone. Dovetti smettere perché un ebreo non poteva giocare neanche più a pallone”.
Le leggi razziali, il fascismo e la macchina di morte nazista misero fine a una carriera e ai sogni pallonari di Alberto che una volta disse a Francesco Totti: “Se non ci fossero state le leggi razziali, sarei diventato più forte di te”.
Con la morte di Alberto Sed se va un altro grande pezzo di storia della Comunità Ebraica di Roma e un testimone di quell’incubo chiamato Shoah.