Le hostess mostrano l’ubicazione delle uscite di emergenza dell’aereo. Con convinzione, le assistenti di volo indicano le porte del velivolo e il sentiero luminoso. I passeggeri sbadigliano, ascoltano la musica, sfogliano le riviste della compagnia area. In pochi prestano attenzione, nessuno immagina di dover utilizzare davvero le uscite di sicurezza, a stento saprebbero individuare le mascherine dell’ossigeno o gonfiare i salvagenti posti sotto ai sedili.
Sderot è una città del sud di Israele che dista un chilometro dalla Striscia di Gaza. Da dieci anni, è bersaglio dei missili di Hamas. A Sderot ogni casa, scuola o edificio pubblico ha un rifugio. Persino le fermate dell’autobus sono fatte di cemento armato. Persino il colorato parco giochi nel piazzale dietro casa, è a prova di missile.
In macchina, le cinture di sicurezza sono slacciate. Nel tentativo di allacciarla, l’autista mi ferma con un gesto repentino e mi fa’ cenno di non utilizzarla. “Devi essere pronta a correre al riparo al suono della sirena, ” mi ammonisce. Per questo, terrà sempre i finestrini abbassati e la radio spenta.
Dal finestrino dell’auto, la città sembra come tante altre. Chi è solo di passaggio non sa che in realtà conserva tanti volti e altrettante storie. C’è chi ha visto la propria casa rasa al suolo, chi ha perso qualcuno di caro e chi è nato e cresciuto con il fischio della sirena nelle orecchie.
Una mattina, una coppia di fratelli andava a scuola. Era all’angolo di una via di uno dei quartieri residenziali di Sderot e improvvisamente ha suonato la sirena. Avendo solo 15 secondi per mettersi al riparo e nessun rifugio nelle vicinanze, la sorella maggiore si è accucciata a terra sopra al fratello sperando di proteggerlo. I residui del missile li hanno colpiti entrambi e hanno perso la vita.
Me lo racconta Idan S., un giovane ventiquattrenne che ha sempre vissuto a Sderot. Quella ragazza era una sua compagna di classe al liceo e quell’angolo della strada è ciò che vede dalla finestra di camera sua ogni mattina e che come ogni altro angolo della città, porta con sè gli spettri della guerra.
Se ripensa agli anni migliori, ricorda i giorni d’infanzia passati a pesca con il padre sul Mediterraneo quando Gaza era una delle tante località marittime in cui trascorrere una giornata con la famiglia israeliana tra i cittadini palestinesi.
A soli venti minuti da Idan, a Netiv Ha’asara, vive Roni Keidar.
Roni è l’organizzatrice di Other Voice, che si autodefinisce: “Un’iniziativa di volontariato composta da cittadini delle comunità che si affacciano sul confine con Gaza.” Roni vive con la sua e altre 66 famiglie in un moshav, una cooperativa agricola, bombardata e rasa al suolo tre volte solo nell’ultimo conflitto. Ha cresciuto dei nipoti che ogni mattina nel tragitto per l’asilo, le chiedono in che direzione correre in caso di allarme.
Eppure Roni si preoccupa per i suoi concittadini e per i civili che vivono a Gaza e in particolare per una sua amica palestinese. A Gaza non esistono rifugi e gli ospedali, non abbastanza attrezzati, trasferiscono spesso i feriti in Israele tramite il valico di Erez. Degli 1.8 millioni di abitanti di Gaza, nel corso dell’ultimo conflitto, Roni sentiva tutti i giorni la sua amica palestinese al telefono per assicurarsi che fosse viva.
Secondo il CLA, Coordination and Liason Administration for Gaza, 350 camion provenienti da Israele attraversano quel valico ogni giorno e 67.353 persone provenienti da Gaza lo hanno attraversato nel 2014. Israele e Gaza sono legate da progetti per migliorare le condizioni di vita nella Striscia. Al di là del confine i civili non hanno elettricità per più di 8 ore al giorno, non necessariamente continue, né pompe di acqua legali. Con il materiale ricevuto ogni giorno tramite i 350 camion provenienti da Israele e finanziato da donazioni internazionali, si potrebbero costruire 86 case, 7 moschee, 6 scuole e 19 cliniche mediche. Mentre un tunnel di Hamas costa l’equivalente del carico di 350 camion, circa 2 milioni e mezzo di euro. Solo durante l’Operazione Protective Edge della scorsa estate, sono stati trovati 32 tunnel scavati in direzione di Israele.
Roni cerca il dialogo con i civili di Gaza, sapendo che sono essi stessi vittime di Hamas.
Idan di Sderot e Roni di Netiv Ha’asara vivono in cattività. La loro prigionia è il perpetuo stato di emergenza a cui sono sottoposti. Mentre l’opinione pubblica sentenzia e le chiacchiere da bar si infervorano, loro due vivono il conflitto ogni giorno. A sei mesi circa dall’ultimo missile, ci sono stati falsi allarme e scontri sul confine e dunque i cittadini israeliani sono ancora in allerta. Sebbene vittime di attacchi provenienti dalla Striscia di Gaza, non odiano ne propagano odio. Ciò a cui aspirano è banale quotidianità, per se stessi e per gli abitanti dell’altra parte del confine.
La loro gabbia è vivere all’infinito la scena delle uscite di emergenza. Le hostess mostrano in continuazione dove correre in caso di pericolo, solo che a loro non è permesso sbadigliare, ascoltare la musica o sfogliare una rivista. Devono essere pronti a scappare ma soprattutto a risalire su quell’aereo tutti i giorni, senza mai perdere di vista il sentiero luminoso.