Mentre in Israele la formazione del nuovo governo prosegue con ritmi rilassati, un po’ per le vacanze pasquali, un po’ per il consueto tiramolla fra i partiti, che vogliono tutti controllare i ministeri chiave e inserire nel programma temi contrastanti, si avvicina una scadenza internazionale fondamentale per Israele. E’ la presentazione del piano dell’amministrazione Trump per la pace fra Israele e Autorità Palestinese, che è stata annunciata per giugno, presumibilmente appena sarà formato il nuovo governo. Altre volte era stata prevista la pubblicazione del piano, è possibile che sia ancora rinviato o che non esca mai, ma a parte le conferme abbastanza chiare dell’inviato USA per il Medio Oriente Greenblatt e del fiduciario personale di Trump per questa partita, il genero Jared Kushner, ci sono delle ragioni oggettive per pensare che l’inizio dell’estate sia il momento buono. Trump si è molto impegnato su questa vicenda, ha il vanto di aver realizzato tutti gli impegni presi e certamente non vorrà tradire questo, anche perché le elezioni presidenziali sono a novembre 2020 e un risultato storico come un accordo del genere aiuterebbe certamente la sua rielezione. Proprio per il fatto che la campagna elettorale inizierà fra un anno Trump ha certamente fretta, perché l’attenzione, il tempo e anche il potere di un presidente in campagna elettorale diminuiscono molto, e con essi anche la possibilità di ottenere il successo.
Che cosa sarà contenuto in questo nuovo piano è ancora un segreto ben custodito. Certamente, come ha detto l’ex ambasciatore francese negli Usa, Araud, che è parecchio antisraeliano ma anche bene introdotto con Kushner, la proposta di Trump non dovrebbe dispiacere a Israele. Si sa che Trump intende coinvolgere l’Egitto e la Giordania nel concedere la cittadinanza ai “palestinesi” che vivono da molto tempo nei loro territori, in cambio di sostanziosi aiuti economici. Si parla anche di uno scambio territoriale che dovrebbe comprendere una cessione di territori da parte dell’Arabia Saudita. Molti hanno detto che per quanto riguarda Giudea e Samaria non sarebbe previsto uno stato vero e proprio dell’Autorità Palestinese, ma una forma rafforzata di autonomia, che del resto era la sola concessione che Israele fece con gli accordi di Oslo. E’ significativo che in campagna elettorale Netanyahu abbia preso l’impegno a non togliere la casa a nessun ebreo di quelle regioni cioè di non ripetere la mossa di Sharon di spiantare degli insediamenti, come invece Gantz aveva in diverse occasione dichiarato di voler fare. E’ difficile che Netanyahu, prudente e astuto com’è, abbia preso un impegno del genere senza consultare gli americani. E del resto mentre la solita Unione Europea ha mostrato scandalo, anche più della Lega Araba, dall’amministrazione Trump non è arrivato alcun segnale di arresto.
E’ chiaro però che il piano dovrà chiedere qualche “sacrificio” a Israele, se non altro per poter essere venduto agli alleati arabi di Trump (e di Israele) tanto da superare le resistenze durissime opposte dalla nomenklatura palestinista, Mohamed Abbas in testa. E’ difficile dire di che cosa si tratti, probabilmente della rinuncia a cospicui territori in Giudea e Samaria. Ma senza dubbio la scelta su come reagire sarà la prima decisione importante di politica estera che spetta al nuovo governo. Finora Israele non ha mai rifiutato le trattative di pace, anche quelle molto svantaggiose. Anzi, di recente è venuto fuori che il primo ministro Olmert nel 2008 offrì ad Abbas di più dell’intero territorio di Giudea e Samaria, oltre al Monte del Tempio e all’assorbimento di 150.000 rifugiati, ma il dittatore palestinese comunque rifiutò. E’ probabile che questa scena si ripeta ancora, sebbene non su questi termini. Ma Trump, che non è affatto lo stolto dipinto dai media di sinistra, ha certamente previsto questo rifiuto e deve aver pensato a come superarlo. E Israele deve a Trump molta gratitudine per scelta come il riconoscimento del Golan e di Gerusalemme, lo spostamento dell’ambasciata e gli appoggi all’Onu.
Dunque la scelta per Israele questa volta potrebbe essere effettiva. Si potrebbe aprire un periodo molto delicato di trattative, certamente complicato da colpi di coda terroristici, compreso un attacco coordinato fra Hamas e Hezbolah, entrambi armati e comandati dall’Iran. Ma anche questo probabilmente è previsto e molte delle recenti attività militari israeliane dell’ultimo periodo si possono forse spiegare in questa prospettiva. Certamente se questa strada andasse avanti sarebbe una rivoluzione per l’intero Medio Oriente. E anche se, come è molto probabile, ci fossero degli ostacoli insuperabili, gli equilibri regionali ne sarebbero profondamente turbati. E’ una fortuna che in questa circostanza al timone di Israele ci sia un leader esperto e abilissimo come Netanyahu