Un sabato mattina come tanti. Uno shabbat come tanti, in cui gli ebrei si recano in sinagoga, che raggiunge la sua affluenza massima vista la funzione del giorno di riposo. Un giorno in cui i piccoli ebrei appena 13enni diventano grandi, compiendo la maggiore età religiosa.
Ma il 15 novembre 2003 a Istanbul non fu un sabato come tanti, non fu uno shabbat come tanti per gli ebrei che si recarono in sinagoga per celebrare il loro giorno del riposo.
Due autobombe devastarono la sinagoga Neveh Shalom, nel centro città (nel quartiere di Beyoglu), e quella di Beth Israel, non molto lontano dalla prima, nel quartiere di Sisli, causando la morte di 23 persone e il ferimento di 305.
Secondo la ricostruzione ufficiale, il vile attentato non fu causato da due kamikaze ma da due auto imbottite di esplosivo e parcheggiate davanti alle sinagoghe.
Riavvolgiamo il nastro della storia e torniamo a quel novembre del 2003. Erano passati poco più di due anni dagli attentati dell’11 settembre che misero l’Occidente davanti a una realtà che fino al giorno prima avevano ignorato.
Quel giorno il mondo cambiò, portando con sé una l’invasione Usa in Afghanistan un mese più tardi e l’attacco in Iraq nel marzo 2003, pochi mesi prima dell’attentato contro le due sinagoghe di Istanbul, dove allora vivevano circa 20mila ebrei.
Il loro rappresentante Yitzhak Haleva, rabbino capo della Turchia, rese la propria testimonianza alla Radio Israeliana:
“Stavo pregando quando improvvisamente c’è stata una esplosione sotto di noi e tutte le finestre si sono rotte. Sono rimasto bloccato nel mezzo della densa coltre di fumo. Ero all’interno. C’è stato il panico e tutti provavano a uscire. Le luci si sono spente e la gente provava a uscire dappertutto”.
Morti, feriti, devastazioni di luoghi di culto. Quando l’odio contro gli ebrei è accecante, nulla può fermare la ferocia umana. Come in quel sabato a Istanbul, dove uno shabbat come tanti diventò uno shabbat di sangue.