Ci sono due tipi di terrorismo. Quello di persone isolate o di piccoli gruppi che spesso sentendosi legati a grandi movimenti sociali, prendono l’iniziativa di colpire i propri nemici, mossi da odio, risentimento, senso di vendetta, volontà di “martirio”; e quello organizzato anche in maniera indiretta da gruppi politici che seguono una strategia e perseguono obiettivi politici anche attraverso l’uso della violenza irregolare e criminale. Del primo gruppo fanno parte storicamente i primi atti di terrorismo anarchico, per esempio, quello di Umberto I e gli attentati ottocenteschi contro Napoleone III, Francesco Giuseppe, gli zar. Nei nostri giorni, a quanto pare, sono in questa categoria il recente attentato in Nuova Zelanda, quello in Norvegia di qualche anno fa, l’attacco contro la sinagoga di Pittsburg. In genere la stampa preferisce presentare il terrorismo in questa categoria dei “lupi solitari” più o meno “radicalizzati”, se non li liquida come atti di “squilibrati”.
Ma la maggior parte degli attentati importanti e sostanzialmente tutti quelli che avvengono in Israele, appartengono alla seconda categoria, sono attacchi politici che rispondono a una strategia, anche quando i dettagli sono lasciati all’inventiva degli esecutori. E’ dunque necessario interrogarsi sempre oltre che sull’identità degli autori e dei complici, su chi li organizza e sulla strategia e anche su chi eventualmente li difende e giustifica, magari senza avere diretta responsabilità organizzativa. Perché gli attentati terroristici sono azioni inumane e repellenti, consistono nell’uccidere a tradimento persone innocenti, passanti, donne, bambini, anziani. Vi è sempre un orrore naturale per chi uccide a casaccio, salvo che si crei un ambiente che giustifica queste azioni, le premia, le porta ad esempio.
Questo è chiaramente il caso del terrorismo palestinista. Chi giustifica, esalta, favorisce, stipendia il terrorismo antisraeliano è la “moderata” Autorità Palestinese. Ai terroristi dei decenni scorsi sono dedicate strade, piazze, scuole, manifestazioni sportive e culturali. I terroristi catturati dalle forze dell’ordine ricevono uno stipendio straordinariamente ricco per l’economia dei territori (fino a 5000 euro al mese) e se muoiono nell’attacco terrorista questo viene dato alle loro famiglie. Ciò avviene quale che sia l’organizzazione cui appartengono (anche se si tratta dei “nemici” di Hamas) e per qualunque crimine anche il più odioso a qualunque coscienza come l’infanticidio. Anzi più è grave il crimine e quindi la condanna giudiziaria, più è alto lo stipendio. Nonostante le concrete pressioni israeliane, americane e anche di qualche paese europeo, l’Autorità Palestinese non ha rinunciato a pagare i terroristi, anzi in questo momento ha tagliato al 50% tutti gli stipendi dei suoi dipendenti civili e ha rinunciato ai costosi ricoveri dei malati gravi negli ospedali israeliani, pur di non toccare questi stipendi, che derivano dalla “missione essenziale” dell’Autorità Palestinese, come si è espresso Mohamed Abbas. La missione essenziale è il terrorismo: qualcosa cui dovrebbero riflettere quelli che dicono che Abbas è un interlocutore per la pace.
Dietro a questo appoggio c’è l’idea che il compito dei palestinisti consista essenzialmente nel cacciare con la forza e possibilmente nello sterminare gli ebrei che hanno avuto l’ardire di tornare in un territorio già conquistato dall’Islam e di fondarvi il proprio stato. E’ un’ideologia di morte pienamente condivisa da Hamas, che non solo favorisce, ma anche organizza, comanda ed esegue la grande maggioranza degli atti terroristici non solo da Gaza ma anche in Giudea, Samaria, Gerusalemme e negli altri territori israeliani. In questi giorni cruciali prima delle elezioni si vede bene l’uso politico (beninteso di una politica criminale) che Hamas fa del terrorismo. Nei contatti indiretti che avvengono attraverso l’Egitto, Hamas cerca di usare la possibilità del terrorismo (quello dei missili, degli esplosivi volanti, degli attacchi alla frontiera e degli attentati isolati) per ottenere da Israele vantaggi come l’apertura delle frontiere, l’allargamento delle zone di pesca (che poi vuol dire libertà di movimento e sperabilmente per loro di rifornimento militare in mare), la possibilità di ricevere denaro contante da Qatar ecc.
La ragione è da un lato il bisogno di alleggerire la pressione della popolazione di Gaza, profondamente insoddisfatta della rapina economica cui la sottopone Hamas; dall’altro di porre le premesse per ulteriori attività terroristiche, come nel caso della pesca o della richiesta di smettere di isolare con mezzi elettronici le comunicazioni delle prigioni dovo sono rinchiusi i terroristi condannati, per permettere loro di coordinare con l’esterno gli attacchi.
Israele non ha alcuna convenienza a una nuova guerra a Gaza, che richiederebbe la vita di molti soldati, avrebbe costi sulla popolazione civile che sarebbero fatte pagare a Israele nella politica internazionale, distoglierebbe forze dal vero terreno di guerra con l’Iran, la frontiera siriana e libanese e porterebbe a una situazione non diversa dal presente, anche se si distruggessero molte infrastrutture militari di Hamas e si eliminassero molti dei suoi capi. Aver evitato di nuovo una guerra nei giorni scorsi, rischiando la popolarità personale in tempi di elezioni, è un merito di Netanyahu, che mostra la sua statura di statista. Ma Israele non può neppure cedere sulle pretese di Hamas, se non in uno scambio negoziale che abbia anche dei vantaggi per la sicurezza. Dunque usa una tattica del bastone e della carota, sapendo che in questo momento il tempo lavora contro i terroristi, perché la tecnologia israeliana progressivamente neutralizza le loro armi (per esempio i tunnel) e perché cresce il rapporto di Israele con i paesi sunniti, isolando i palestinisti.
Questa è la delicatissima partita in gioco in questi giorni e anche mesi ed anni: sconfiggere il terrorismo senza pagare i prezzi di un’azione militare, far durare uno status quo che è a vantaggio di Israele, gestire la violenza provocata dal terrorismo con acume politico, avendo presente che la partita vera non è sul terreno (dove non c’è confronto fra le armi israeliane e quelle terroriste), ma nel modo in cui il mondo vede Israele, nella sua collocazione diplomatica, giuridica, economica, mediatica. Nonostante le ambiguità (o peggio) dell’Europa, anche in questa partita Israele è in vantaggio, grazie alla guida esperta e sicura di Netanyahu.