Nulla di nuovo sotto il sole, si fa per dire. L’aggressione verbale subita da Alain Finkielkraut a Parigi durante un corteo dei gilet gialli dove è stato insultato perché “sionista” e dunque difensore di Israele, e dunque suscettibile di punizione divina, non proveniva, come ha cercato di fare credere un atro filosofo ebreo francese vicino a Israele ma molto gauche caviar, come Henri Bernard Levy, dal fascismo risorgente di cui i gilet gialli sarebbero un contenitore. No, il principale aggressore verbale di Finkielkraut è un musulmano radicalizzato. Lo stesso intellettuale francese e accademico di Francia lo ha detto chiaramente durante una trasmissione televisiva dopo l’incidente facendo riferimento alle frasi ingiuriose di cui è stato fatto oggetto. “Questa è retorica islamista“.
Alcuni fatti vanno ricordati. La strage alla scuola ebraica Ozar Hatorah di Tolosa del 2012, quella dell’Hypercasher del 2015,gli omicidi individuali di ebrei come quello di Ilan Halimi nel 2006, di Sarah Halimi nel 2017, di Mireille Knoll nel 2018. Tutti episodi riconducibili all’odio islamico nei confronti degli ebrei.
La realtà è dunque questa. Che vi sia in Francia, come altrove in Europa, un antisemitismo autoctono, è una ovvietà assoluta, ma non è quello egemone e non è quello che in Francia ha mietuto le vittime elencate, e non è quello che ha in Israele il suo obiettivo principale e che a Parigi si è manifestato contro Finkielkraut.
“Oggi, la Francia”, ha Guy Millière, “E’ l’unico paese nel mondo occidentale in cui gli ebrei vengono uccisi solo per essere ebrei” . Ed è sempre Millière a sottolineare come, “In due decenni più del 20% degli ebrei francesi hanno lasciato la Francia. Secondo un sondaggio, il 40% degli ebrei che vivono attualmente in Francia, vogliono andarsene. Malgrado gli ebrei rappresentino attualmente meno dello 0.8% della popolazione, metà dei militari e della polizia impiegata nelle strade francesi si trova di guardia davanti alle scuole ebraiche a ai luoghi di culto”.
La Francia è anche il paese che in nome della libertà di espressione ha permesso che l’umorista e attivista di colore Dieudonné, dal 2002 in poi, nei suoi spettacoli e nei suoi interventi propagasse una narrativa ferocemente antisemita e antisionista che non sarebbe dispiaciuta ad Alfred Rosenberg e Julius Streicher. Ma la Francia non è la Germania degli anni ’40, è un grande paese democratico culla ed erede dell’Illuminismo, dove la libertà di espressione, che, il 7 gennaio del 2015 è costata la vita a una parte della redazione di Charlie Hebdo, rea di avere pubblicato vignette blasfeme su Maometto, è un caposaldo, fino a quando, certo, non si tocca troppo da vicino l’Islam. Allora le cose cambiano. Ci si deve nascondere, e vivere sotto scorta, come Robert Redeker oppure si viene uccisi, o, nel migliore dei casi, si viene portati in giudizio, come è accaduto a Georges Bensoussan. Ma Dieudonné se ne guarda bene da lanciare invettive contro l’Islam, per lui i musulmani, insieme ai neri, sono vittime dello stesso potere terribile e implacabile che si presenta sotto l’effige della Stella di Davide. Egli ha preferito mascherarsi da paladino degli oppressi di colore, restando quindi fermamente saldo su un terreno in sintonia con lo Zeitgeist, e dunque capace di intercettare un ampio consenso, appoggi, simpatie, dall’estrema destra (Jean Marie Le Pen), come dall’estrema sinistra.
Dieudonné è un sintomo della malattia grave di cui soffre la società francese, e di cui una buona parte dell’Europa è affetta. Basta guardare al Regno Unito dove il principale partito di opposizione è virulentemente antisionista e rigurgitante di antisemiti, basta guardare alla Svezia, all’Olanda, alla Norvegia, all’Irlanda, dove, in nome delle magnifiche sorti e progressive, Israele è rappresentato come uno Stato canaglia.
Non c’è quindi da sorprendersi eccessivamente se Alain Finkielkraut sia stato aggredito verbalmente. E’ uno dei frutti marci del clima avvelenato, dell’odio diffuso a piene mani contro Israele, soprattutto da parte islamica da cinquanta anni a questa parte.