Nonostante il lancio di una campagna elettorale particolarmente tumultuosa, con la formazione di nuovi partiti e personaggi popolari che annunciano o smentiscono la loro partecipazione alle elezioni in questo o quello schieramento, Bibi Netanyahu ha lasciato Israele per parecchi giorni allo scopo di partecipare alla cerimonia di assunzione della presidenza del Brasile di Jair Bolsonaro.
Bisogna dire che questa campagna elettorale è particolarmente critica per Netanyahu, che corre non solo contro avversari politici che secondo tutti i sondaggi può sconfiggere facilmente, ma anche contro lo “stato profondo” burocratico e giudiziario e in parte anche dei servizi di sicurezza, che gli hanno dichiarato una guerra durissima, con imputazioni di corruzione che non stanno in piedi sul piano della logica e dei fatti accertati.
Chi ama Israele non può che leggere con profondo sconcerto l’articolo di Caroline Glick, la più acuta analista strategica della politica israeliana pur spesso non tenera con Netanyahu, in cui questa guerra è descritta in termini tali da dare l’idea che essa possa rendere “inutili” le elezioni israeliane, come lo sono quelle europee.
Netanyahu comunque si è staccato dalla campagna elettorale per recarsi a un’occasione prevalentemente cerimoniale, non a una trattativa politica; di fatto per cementare il rapporto di Israele con un leader politico pesantemente criticato (per essere eufemistici) in Europa. E’ vero che il Brasile è una superpotenza virtuale, che se riuscisse a uscire – magari con l’aiuto delle competenze israeliane – dai suoi problemi di gestione dello stato e dell’economia potrebbe avere un peso sul mondo importantissimo, paragonabile a quello dell’India, di cui Bibi ha molto corteggiato il leader Modi, costruendo un ottimo rapporto.
Ma anche Modi è stato molto criticato dai giornali europei che si sono degnati di prendere in considerazione uno stato di un miliardo e quattrocento milioni di abitanti in pieno boom economico. E sono stati criticati i rapporti che Netanyahu ha intessuto negli Usa con Trump e in Europa con leader “populisti” come Orban in Ungheria, Kurz in Austria, Babis in Repubblica Ceca. Per non parlare del recente viaggio di Salvini, accolto benissimo in Israele, suscitando lo sdegno non solo di giornali “autorevoli”, ma anche di un certo numero di altrettanto “autorevoli” membri della comunità ebraica italiana.
Perché Israele si mescola con questi “populisti”, chiedono costoro? Semplice, rispondono, perché anche Netanyahu è un “populista” che deve essere respinto e emarginato come loro. Se facciamo a meno del tifo partitico che acceca la maggior parte dei media e tradizionalmente anche gli esponenti “autorevoli” di cui sopra, questa risposta è del tutto insensata. Israele, sotto il tiro del terrorismo e dell’asse Iran-Siria-Hezbollah, con la sintonia della Turchia e l’appoggio sempre più esplicito della Russia, non può permettersi di farsi guidare dal tifo politico o ideologico. Né su queste relazioni sono registrati dissensi in Israele anche da parte dell’opposizione (il “rifiuto di ricevere Salvini” da parte del presidente Rivlin è una provocazione del giornale arabo in lingua ebraica Haaretz, ripreso ghiottamente dai suoi omologi italiani: un presidente della repubblica non riceve i ministri dell’interno in visita, per ovvie ragioni di protocollo).
La questione è un’altra. Gli stati e le organizzazioni che al mondo restano “progressisti” (dall’Unione Europea all’Onu, dalla Francia alla Germania alla Svezia al Vaticano ecc.) conducono contro Israele una guerra diplomatica senza quartiere, finanziano un’organizzazione di supporto ad Hamas come l’UNRWA, intervengono pesantemente negli affari interni di Israele, fino ad avere dei diplomatici che fanno contrabbando d’armi per i terroristi (è successo di recente alla Francia e in passato al Vaticano) o affrontano fisicamente i soldati israeliani (ancora la Francia), che finanziano costruzioni illegali in Giudea e Samaria (l’Unione Europea), o dei militari che riferiscono ai terroristi di Hezbollah – che dovrebbero mettere in condizione di non nuocere – quel che sanno delle loro attività l’esercito israeliano (l’Unifil, l’inutile forza dell’Onu purtroppo comandata da un generale italiano). Non sono degli amici, dunque, esattamente il contrario. Chi ha appoggiato Israele negli ultimi anni sono stati Trump e i “populisti”. E la politica israeliana, fin dai tempi di Ben Gurion segue la linea di cercare amici e alleati nel mondo per garantirsi una difesa diplomatica, scambi economici, eventualmente rifornimenti militari. Col solo limite del rifiuto del nazismo (ma nessuno dei leader che ho citato lo è), Israele al tempo di Ben Gurion e Golda Meir ha stretto alleanze con lo Scià di Persia, la Cecoslovacchia stalinista, il Sudafrica.
Non dovrebbe farlo ora con Bolsonaro e Salvini, coi paesi arabi sunniti (Egitto, Arabia) che condividono con lo stato ebraico la percezione dell’Iran come pericolo mortale ma certo non sono esempi di democrazia garantista, con i numerosi paesi asiatici e africani che sono attratti dalla tecnologia israeliana e dalla capacità di autodifesa di un piccolo paese fiero della propria identità? Perché? Per soddisfare gli scrupoli ideologici di giornali, politici e intellettuali che sono attratti dal sogno di un governo mondiale e della mescolanza totale delle popolazioni che dovrebbe eliminare qualunque identità culturale – cioè il contrario dell’ebraismo, la replica dei poteri imperiali, da Babilonia a Roma dal cattolicesimo all’islam al comunismo, che hanno sempre cercato di distruggere la specificità ebraica? O semplicemente per paura del nuovo, per il riflesso condizionato di un’alleanza fra ebrei e sinistra che non è mai davvero esistita?
Per fortuna Israele è guidata oggi da Bibi Netanyahu e sperabilmente continuerà ad esserlo. Perché la dote principale dell’attuale primo ministro di Israele che ne fa il miglior governante dopo Ben Gurion è il realismo. E senza realismo lo stato non può certo sopravvivere lo stato di un piccolo popolo che deve fare i conti con un “odio antico” che vuoli eliminarli da duemilacinquecento anni (da prima del cristianesimo, dai tempi dell’ellenismo in cui si formò l’ideolgia antisemita sfruttata poi dai padri della Chiesa per definire la propria identità in opposizione alla cultura da cui si esano staccati).