Fu aperta nel 2008 e nel 2012 vi arrivò, con al seguito moglie e figli, uno dei primi ebrei ortodossi proveniente dal Sud Africa, Ross Kriel, avvocato presso un’azienda energetica locale. Per dieci anni, però, la sinagoga di Dubai – per il momento l’unica e la prima nell’ultimo secolo in tutto il mondo arabo – ha funzionato in maniera discreta. La struttura, che comunemente viene chiamata “villa”, era una vecchia abitazione in un quartiere residenziale della città ed è composta da una zona adibita alla preghiera, con una mechizà (la divisione tra il settore delle donne e quello degli uomini) decorata da lanterne, una cucina kasher con annessa una zona per attività socio-ricreative e qualche camera da letto al piano di sopra per ospitare chi osserva strettamente lo Shabbat (il Sabato).
Fino a poco tempo fa la piccola comunità composta da 150 anime, per lo più imprenditori e manager – con le loro famiglie – si è impegnata molto per mantenere il più basso profilo possibile: l’edificio non riporta insegne, non esiste un sito internet che ne parli, né è segnato tra i luoghi ebraici nelle guide turistiche e il suo indirizzo è fornito soltanto dopo aver prudentemente esaminato il richiedente. Recentemente, tuttavia, grazie al disgelo che sta lentamente avvenendo tra l’Emirato e lo Stato di Israele, ma soprattutto all’amicizia personale tra Mohamed Alabbar capo della più grande agenzia immobiliare del Paese e Eli Epstein dirigente di un’azienda americana fornitrice di acciaio e alluminio per le industrie, il piccolo gruppo sta uscendo dalla sua riservatezza. Così, le visite dei ministri Netanyahu e Regev nel Paese e di Yisrael Katz ed Eli Cohen in Oman, hanno fornito l’occasione per inaugurare ufficialmente la sinagoga e il relativo centro. Epstein ha contribuito ulteriormente donando alla comunità un Sefer Torah (il Rotolo del Pentateuco) nella cui parte esterna è incisa in lettere dorate la dedica in arabo all’amico “Sua eccellenza” Alabbar con il quale ha lavorato a lungo e ha fondato l’associazione “The Children of Abraham” (i figli di Abramo), impegnata da anni nel dialogo tra ebrei e musulmani. Anche nella funzione che ormai si tiene tutti i sabati mattina è stata inserita una preghiera speciale per il benessere del governo degli EAU.
Nonostante coloro che vivono a Dubai sostengano che ci sia molta tolleranza e cortesia tra le varie popolazioni che costituiscono le duecento differenti nazionalità ivi presenti (di cui solo l’11% ha la cittadinanza) e il governo si preoccupi del benessere anche degli ebrei, essi non si sentono ancora del tutto al sicuro. La simpatia verso il fondamentalismo islamico e le organizzazioni terroristiche palestinesi è abbastanza diffusa ed elevata e in molti ambienti l’avvicinamento tra la democrazia di Gerusalemme e l’Emirato è visto come un tradimento da parte di quest’ultimo. Molti, dunque, preferiscono rimanere ancora nell’anonimato.
Gli ottimisti, però non mancano, come il rabbino newyorchese Sarna che fa notare quanto possa essere stupefacente il fatto che la prima comunità ebraica nel mondo arabo sta addirittura crescendo, proprio mentre in Europa e negli Stati Uniti l’ebraismo vede tristemente calare la sua popolazione sotto livelli mai raggiunti nelle ultime decadi:
“Per decenni, dopo la seconda guerra mondiale, si riteneva che il posto più sicuro per gli ebrei fosse quello dove vigeva una democrazia liberale. Siamo invece arrivati ad un punto in cui essi sentono di avere un futuro migliore in un Paese arabo che è sicuro (il tasso di criminalità è molto basso) ed economicamente prospero e dove non devono proteggersi con barriere antiproiettile ogni volta che entrano in una sinagoga.”