Nei giorni scorsi è venuto a Gerusalemme il presidente della Repubblica Ceca, che ha parlato con forza in sostegno di Israele e ha iniziato, nonostante le pressioni contrarie della Germania, un processo che dovrebbe portare al trasferimento dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Per ora i cechi aprono un consolato e un centro di rappresentanza, che poi si spera diventi la nuova ambasciata. Per chi ricorda che cosa è stata Praga per l’ebraismo europeo, dal Maharal a Kafka, questa vicinanza è significativa. Quasi contemporaneamente a questa visita c’è stata quella inaspettata del presidente del Ciad, uno stato africano a maggioranza musulmana, che non aveva rapporti diplomatici con Israele, e che ha deciso di aprirli, con un regolare scambio di ambasciatori invitando Netanyahu in visita. E’ davvero una visita storica, come ha detto il primo ministro israeliano. Sembra fra l’altro che dopo il Ciad sarà la volta del Sudan, altro stato islamico, in passato pesantemente compromesso con l’Iran, che è in procinto di rompere il fronte del boicottaggio. Si è anche alla vigilia dell’apertura di regolari rapporti diplomatici fra Israele e Bahrein, il primo stato della penisola arabica a fare questa scelta.
Perfino Haaretz, il giornale di estrema sinistra nemico giurato di Netanyahu e dei suoi governi, ha dovuto ammettere che la linea diplomatica del primo ministro funziona benissimo. La normalizzazione dei rapporti con Israele è la parola d’ordine di tutti i paesi arabi, anche di quelli come il Qatar più islamisti e ideologicamente antisraeliani, che si rendono conto di non poter non fare i conti con Israele per difendere i propri interessi nella regione. Naturalmente non si tratta di un miracolo, i nemici restano nemici. Semplicemente hanno perso la speranza di poter spiantare il “regime sionista” in tempi brevi o medi, e sanno che la politica si fa con chi c’è. L’esempio paradigmatico di questi rapporti è quello con la Turchia: Erdogan è certamente ostile a Israele e se potesse ne consegnerebbe il territorio ai suoi cugini ideologici di Hamas; ma non può e fra una sfuriata e l’altra deve cercare degli accordi. Anche Israele del resto non ama i regimi islamisti, né le dittature militari, né i regni corrotti, ma sa di dover fare i conti con l’Egitto e la Turchia, l’Arabia Saudita e la Cina. Del resto, anche rispetto all’Europa, l’atteggiamento israeliano è pragmatico: se l’Austria o l’Ungheria possono aiutare politicamente, Israele cerca di avere buoni rapporti con quei governi, senza che questo voglia dire essere d’accordo con le loro politiche interne. E anche con governi democratici ma più o meno nemici di Israele, come la Francia, per fare un esempio fra i tanti possibili, Iosraele si sforza di trovare dei terreni di intesa e scambi politici.
E’ la politica, certamente necessaria a un piccolo stato con grandi nemici. Non è una novità, Ben Gurion e Golda Meir si trovarono a cercare il sostegno di Stalin, dello Scià di Persia, del Sudafrica, e anche a passar sopra al passato, e che passato, per stringere rapporti diplomatici con la Germania, firmando il primo accordo di riparazioni di guerra nel 1952 e stabilendo piene relazioni diplomatiche nel ‘65, solo vent’anni dopo la Shoah. Netanyahu è molto bravo e lucido in questa politica, non si fa illusioni né su Putin né sull’Arabia Saudita (figuriamoci su Mogherini o Macron). Ma cerca di tutelare gli interessi di Israele sul piano dei fatti, delle cose che contano, non dell’orgoglio o della simpatia.
In questo quadro vanno viste anche le scelte su Gaza. E’ chiaro che gli assalti al confine, le bombe volanti, i missili sollecitassero una risposta immediata, che Netanyahu ha scelto di non fare, provocando le dimissioni del ministro della difesa Liberman. Ma solo uno sciocco può pensare che questa scelta sia dovuta a “vigliaccheria”. Pensate se oggi ci fosse in atto un’operazione militare di terra a Gaza, o se si fossero compiuti altri atti (bombardamenti che per quanto mirati avrebbero provocato molte vittime, omicidi mirati di capi terroristi che avrebbe provocato altri razzi e altra escalation militare). Oggi probabilmente lo scontro sarebbe ancora in corso, avremmo avuto decine se non centinaia di vittime israeliane fra militari e civili colpiti dai razzi; e certamente migliaia di morti a Gaza, fra cui inevitabilmente civili e donne e bambini, per quanto Israele si sforzi sempre di evitarli, con la speculazione conseguente che abbiamo conosciuto per esempio nel 2008 e nel 2014. I rapporti diplomatici faticosamente costruiti con una parte crescente del mondo arabo e africano sarebbero stati lacerati prima di consolidarsi. Le piazze di mezzo mondo sarebbero state percorse da cortei antisemiti gremiti e significativi (non come il fallimento che c’è stato sabato scorso a Milano). Certo, Israele avrebbe dato “una lezione” ai terroristi di Hamas. Una lezione che può sempre dare, visto che i rapporti di forza sono massicciamente a suo favore. Ma chi avrebbe vinto, nel caso si fosse seguita questa strada, sarebbe stato l’Iran, che avrebbe di nuovo isolato Israele e magari sarebbe riuscito a impantanare un parte importante dell’esercito israeliano nella repressione della guerriglia a Gaza.
Insomma, Netanyahu ha avuto ragione nella sua scelta e oggi lo si vede benissimo. Perché sul piano internazionale e in particolare in Medio Oriente, è vero che sono rispettati i forti e non certo quelli che Machiavelli chiamava “profeti disarmati”. Ma nessuno è più forte di chi, avendo le armi e sapendole usare, tiene i nervi freddi e decide lui, secondo un’analisi lucida dei propri interessi, quando è il caso di andare in combattimento. E il successo diplomatico mostra come Israele è visto nella regione come un soggetto forte e disciplinato, lucido e razionale, che non si lascia andare a reazioni emotive ma calcola con attenzione le sue mosse.