La violenza a Gaza continua, anche se negli ultimi giorni le cose si sono un po’ calmate, dopo che un missile sparato dalla Striscia ha colpito una casa a Beer Sheva e Israele ha ammassato truppe corazzate sui confini pronte per entrare nei territori controllati da Hamas e perfino l’Egitto è intervenuto chiedendo con forza moderazione a Hamas. Almeno così sta la situazione mentre scrivo questo articolo: un peggioramento improvviso è sempre possibile. Ho spiegato di recente in un altro articolo su questo sito quali sono le losche motivazioni che rendono sia Hamas che Fatah responsabile dei disordini e della morte di più di 150 persone lanciate all’assalto di una frontiera ben difesa da un esercito regolare. Come diceva Mussolini dell’attacco alla Francia nel 1940, serve loro qualche centinaio di morti da far pesare sulle trattative di pace.
Adesso vorrei considerare la posizione strategica di Israele su questo fronte, anche per rispondere a quelli che rimproverano a Netanyahu di temporeggiare e non fare niente di decisivo. Purtroppo Israele ha poche opzioni realistiche. Chiaramente, per ragioni etiche (e anche pensando alle reazioni internazionali) Israele non può bombardare indiscriminatamente Gaza. I suoi abitanti non hanno dove andare, dato che anche la frontiera con l’Egitto è chiusa, “spianare Gaza”, come qualcuno ha scritto, sarebbe una strage paragonabile a quelle che l’aviazione alleata inferse a Berlino e Dresda e che però oggi non è accettabile né alla coscienza di Israele né alla comunità internazionale. Anche ragionando per un attimo in maniera assolutamente cinica, i danni alla posizione internazionale di Israele sarebbero infinitamente superiori ai vantaggi. E’ un’opzione che nessuno considera seriamente.
Quel che è possibile è un’operazione di terra appoggiata da interventi molto mirati dell’aviazione, sullo stile di quel che è già accaduto nel 2008-2009 e poi nel 2014. Questa è un’opzione concreta, già predisposta. Ma l’esperienza è che si tratta di un’opzione costosa e non risolutiva. Il costo di vite umane, tanto di abitanti di Gaza che di soldati israeliani ed eventualmente cittadini israeliani comuni colpiti da razzi sarebbe certamente alto. Gaza è in buona parte un’area urbana che Hamas ha fortificato con tunnel e centri di combattimento collocati apposta in mezzo alle case, agli ospedali, alle scuole e alle moschee. Colpirli con l’artiglieria senza fare vittime civili è impossibile, bonificarli con la fanteria comporta notevoli perdite per le truppe israeliane e comunque un certo numero di vittime civili usate da Hamas consapevolmente come scudi umani. Un calcolo lucido deve confrontare questi costi con i danni che Hamas è in grado di infliggere oggi, che sono dolorosi ma limitati: incendi di boschi e campi intorno al confine, un certo numero di militari feriti, un morto ucciso da un cecchino, case danneggiate, rischi e stress per la popolazione civile. E’ un calcolo molto sgradevole, ma un governo responsabile deve farlo. Il costo di attaccare per Israele è certamente assai più alto che quello di contenere la violenza come si fa oggi. Anche per questo è evidente che Hamas, su indicazione dell’Iran, sta cercando di attirare l’esercito israeliano dentro Gaza, sulla base della convinzione che si tratti di una trappola pericolosa soprattutto per Israele, sul piano militare come su quello politico.
Continuiamo a ragionare. Israele entra nella striscia, conquista alcuni capisaldi, distrugge delle istallazioni militari sul confine, come i tunnel (che già ha colpito senza operazioni: quindici negli ultimi mesi). Poi che fa? Se si ferma a ripulire la zona di confine come nelle ultime volte bisogna pensare che l’esito sarà lo stesso: intervento della “comunità internazionale”, trattative, qualche concessione di facciata a Hamas – spesso promesse vuote – un certo periodo di calma fino alla ripresa di un altro ciclo. Se va avanti, il conto diventa più grave. Più l’operazione si inoltrasse nel centro di Gaza, dove sono i centri di potere di Hamas, più sarebbe costosa in termini di vite umane. Ammettiamo però che Israele, in un mese di combattimenti molto duri, riconquisti interamente la Striscia, catturi o uccida la maggior parte dei dirigenti terroristi. Che fa ora? Restare a dominare una zona urbana, abitata da un milione e mezzo di persone, di cui il dieci per cento almeno è in un modo o nell’altro organico al terrorismo e addestrato a perpetrarlo, sarebbe costosissimo sul piano umano e materiale. Si dovrebbe concentrare una buona parte dell’esercito, sguarnendo il Nord dove vi è la minaccia di Hezbollah, si subirebbero attacchi continui e ben organizzati, dato che armi, esplosivo e addestramento sono ben diffusi nella popolazione di Gaza. Seguirebbero rappresaglie, scontri, una guerriglia urbana in piena regola, con possibili effetti di imitazione anche in Giudea e Samaria e una montante campagna internazionale di demonizzazione.
Immaginiamo ora invece che, conquistata Gaza e decapitata Hamas, Israele si ritiri. Che succederebbe in questo caso? Chi prenderebbe il potere nella striscia? Il secondo gruppo terrorista dopo Hamas è la Jihad Islamica, direttamente organizzata e finanziata dall’Iran. Sarebbe un rimedio peggiore del male, il terrorismo riprenderebbe sotto il controllo diretto dei più pericolosi nemici di Israele. E se invece il potere andasse a Fatah, il gruppo che governa anche l’Autorità Palestinese? E’ improbabile, ma anche in questo caso la situazione non muterebbe troppo. Nei due anni fra lo sgombero degli insediamenti israeliani nella Striscia e il colpo di stato di Hamas, a Gaza Fatah faceva terrorismo come Hamas, e ha continuato ad appoggiarlo nei limiti delle sue forze. Inoltre è probabile che un suo dominio sarebbe rapidamente rovesciato dai resti di Hamas che sono molto più numerosi. E ci sono anche aderenti dell’Isis e di Al Queida, che potrebbero mostrare la loro forza, naturalmente col terrorismo. Il risultato più probabile sarebbe una specie di anarchia terrorista, come in certi territori siriani o libici. Purtroppo non si conoscono forze politiche a Gaza che non si fondino sul terrorismo antisraeliano.
E allora? Qual è l’alternativa? Non è piacevole, ma è continuare e migliorare quel che ha fatto finora l’esercito israeliano. Impedire lo sfondamento dei confini, cercare di colpire fra gli assalitori della barriera i terroristi più accesi, colpire con l’aviazione e i droni i fabbricanti di ordigni incendiari ed esplosivi aerei, modulare attentamente il bastone e la carota sui rifornimenti, cercare di convincere coi fatti gli abitanti di Gaza che la prevalenza del terrorismo è contraria ai loro interessi vitali, concludere il grande progetto del muro sotterraneo che renderà impossibile la costruzione di tunnel d’attacco, migliorare le batteria di Iron Dome per vanificare gli attacchi coi razzi. Magari in casi gravi colpire i dirigenti di Hamas, che attualmente godono di una qualche impunità. Insomma non cambiare strategia, ma migliorare la tattica. Non è una conclusione particolarmente incoraggiante, ma è quella che evidentemente è il piano principale dell’Esercito Israeliano e di Netanyahu. E che coincide anche con l’analisi della più lucida giornalista israeliana, Caroline Glick. Vi è però anche una parte positiva: la guerra d’attrito che Israele sostiene non gli impedisce di crescere e di affermarsi in tutti i campi, dall’economia alla politica e alla diplomazia. Il tempo non lavora per i terroristi, ma per la democrazia israeliana. Per questo è necessario tenere i nervi freddi e non agire seguendo solo lo sdegno o la giusta rabbia che provoca il terrorismo e il suo appoggio internazionale.