Leggi razziali. Per quella che dovrebbe essere solo una dicotomia, si trovò una “legittimazione” scientifica. Un insieme di leggi per decretare un gruppo superiore a un altro. Chi aveva il diritto di studiare e chi no, chi aveva il diritto di svolgere il proprio lavoro e chi no.
Era il 5 settembre 1938, quando re Vittorio Emanuele III certificò l’infamia e la vergogna volute da Benito Mussolini, ponendo la propria firma sulle “prime” leggi razziali, che fecero da apripista ad altre che entrarono in vigore nelle settimane successive.
Vittorio Emanuele III non ebbe la forza di contrastare il Duce, la cui campagna di stampa estiva del 1938 contro gli ebrei venne attutata quando il sovrano italiano era impegnato nella sua lunga vacanza a Pisa, iniziata nel mese di giugno.
Con quella firma, lo Stato italiano diede inizio al calvario degli ebrei italiani. Espulsione degli insegnati, percorsi scolastici interrotti o complicati, interdizione dai pubblici uffici e numerosi altri provvedimenti che declassarono gli ebrei come cittadini di livello inferiore, che nelle settimane precedenti furono etichettati così dal “Manifesto degli scienziati razzisti”, pubblicato a metà luglio del ’38 sui giornali italiani:
“Gli ebrei non appartengono alla razza italiana… Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli italiani”.
A decenni di distanza, si cerca di capire quali siano state le motivazioni che portarono alle leggi razziali.
Il re non riuscì a opporsi a Mussolini? Mussolini voleva e doveva avvicinare la propria politica “razziale” a quella dell’alleata Germania nazista?
Poco importa, o meglio importa agli storici, agli analisti. Non a quelle persone che furono vittime di quei vergogni provvedimenti, non a chi ne ha raccolto l’eredità morale e culturale. Non alla gente perbene…