I discorsi in Medio Oriente tendono a essere ripetitivi. Uno di questi “tormentoni” (così si chiamano a teatro le gag a ripetizione) è quello della “tregua” di Israele con Hamas. Al fondo le cose sono molto semplici. Israele potrebbe facilmente ma non ha alcun interesse a riprende in mano Gaza, per la semplice ragione che lì vi risiede un milione e mezzo di arabi, di cui una parte minoritaria ma importante (qualche centinaia di migliaia di persone) è estremamente fanatizzata e in essa alcune decine di migliaia sono armate e addestrate alla guerra. Conquistare Gaza, tutta già minata e piena di tunnel armati, senza bombardamenti massicci che farebbero un danno inaccettabile perché indiscriminato sulla popolazione civile, sarebbe un compito faticoso ma non impossibile. Tenerla in mano vorrebbe dire impegnare molte delle forze militari israeliane e subire uno stillicidio di perdite. Gaza non ha alcuna rilevanza strategica, non controlla materie prime o linee di comunicazione importanti, il gioco non varrebbe la candela.
Israele però non può subire i danni e le provocazioni di Hamas, che pure hanno un impatto molto limitato sui rapporti di forza, oltre a un certo limite. Se si supera questi limite, deve intervenire cercando di scardinare l’organizzazione militare dei terroristi il più possibile, distruggendo materiali, armi, infrastrutture (che sono costose e difficili da ricostruire) più che uccidendo nemici facilmente rimpiazzabili con nuove generazioni di terroristi. Il risultato di questa dinamica è che Israele da sempre offre “calma in cambio di calma”. Se i terroristi smettono di compiere attentati, sparare razzi, cercare di incendiare il territorio israeliano e di sfondare la barriera di confine, Israele è dispostissimo a lasciar in pace Hamas. Non solo per le ragioni dette prima e per la valutazione che una Gaza senza Hamas sarebbe ancora più incontrollabile, ma anche perché il tempo non lavora per i terroristi. L’economia e la tecnologia israeliana tolgono o indeboliscono progressivamente al terrorismo i suoi mezzi (per esempio i tunnel e i razzi), la testa del serpente terrorista che è l’Iran in questo momento è in gravissima crisi economica e politica, nonostante il sussidio dell’Europa, insomma l’anno prossimo è ragionevole pensare che Hamas sarà più debole e non più forte. Al di là di ogni considerazione morale, che pure conta molto per le scelte dello stato ebraico, Israele non ha neppure interesse a ridurre alla disperazione gli abitanti di Gaza, togliendo loro cibo, acqua, medicine. E infatti continua a farle passare dai valichi che controlla, anche nei momenti di crisi.
Infine, che ci siano due entità palestiniste e non una, per scelta delle dirigenze arabe e non di Israele, mostra chiaramente l’incapacità dei palestinisti di costruire uno stato. E che una di esse sia la corrotta e paralizzata cleptocrazia (cioè governo dei ladri) di Ramallah e che l’altra sia la crudele, sanguinaria e altrettanto corrotta dirigenza di Gaza mostra innanzitutto agli abitanti arabi della regione come la “lotta” contro Israele non sia destinata a produrre uno stato giusto e attento alle esigenze dei suoi cittadini, ma la stessa anarchia militare che si è verificata per esempio in Siria. Israele non è responsabile di questa situazione, ma certo non ha interesse a cavare le castagne dal fuoco a Abbas.
Certo, la politica di “calma in cambio di calma” lascia a Hamas l’iniziativa tattica. Sono i capi di Hamas a decidere se ci saranno scontri, addirittura un’operazione miliare come quattro anni fa, oppure no. Ma a Israele restano “il bastone e la carota”, la possibilità di punire o di premiare i comportamenti, di mettere in difficoltà (o al limite di attaccare direttamente) la leadership di Hamas. Tant’è vero che le operazioni degli ultimi mesi appaiono fallimentari alla stessa dirigenza di Hamas.
Per questo ha senso discutere con i terroristi su una tregua, perché è utile avere anche dei possibili vantaggi da offrire, come il porto a Cipro o in un’isola artificiale di cui si parla. Non perché Israele abbia bisogno di comprare ciò di ha diritto (la pace al confine di un territorio che ha abbandonato ormai da molti anni), ma perché è conveniente far capire agli abitanti di Gaza che potrebbero facilmente migliorare la loro condizione, se Hamas non facesse ostacolo. Ma in realtà Hamas non vuole non solo rinunciare alla violenza, ma neppure fare quel che la legge internazionale impone a chiunque, restituire le salme dei soldati morti nell’operazione del 2014 e dei due civili mentalmente instabili (fra l’altro arabi) che ha catturato dopo che avevano sconfinato a Gaza. Dunque è difficile che l’accordo si faccia davvero, anche perché la politica interna palestinista lo impedisce, con due linee di trattative antagoniste e l’opposizione di Abbas .
Certo, tutti questi ragionamenti possono sembrare un po’ cinici, di fronte alla sofferenza delle comunità vicine al confine, delle famiglie dei soldati e anche di coloro che hanno un giusto amore per Israele e un altrettanto giusto odio per il terrorismo. Ma Israele si è potuto stabilire e vive da settant’anni in mezzo a nemici cento volte più ricchi e numerosi perché ha sempre calcolato lucidamente il da farsi, ha sempre distinto fra nemici principali e secondari, non si è mai gettato emotivamente nella politica internazionale (con la sola eccezione del gravissimo errore di calcolo di Oslo) e tanto meno nella guerra.