L’attentato al centro ebraico di AMIA di Buenos Aires è ricordato come il più feroce contro la comunità ebraica argentina, la più numerosa di tutto il Sud America. Erano le 9.58 del 18 luglio1994 quando morirono 85 persone e ne vennero ferite 300 a causa dello scoppio di un furgone carico di tritolo nel parcheggio dell’Associazione Mutualità Israelita Argentina (AMIA) e della Delegazione delle associazioni israelite argentine.
Tra depistaggi, false testimonianze e coperture, le indagini si sono rivelate senza blocco per decenni, riecheggiando gli attentati avvenuti in Italia nei cosiddetti Anni di Piombo. Passava il tempo e la strage all’AMIA ancora non aveva un colpevole, fin quando una collaborazione internazionale non portò alla luce una serie di telefonate tra Iran e Hezbollah.
Ma non solo, perché senza gli appoggi di gruppi del terrore locali Iran e Hezbollah non avrebbero potuto portare avanti il progetto che poi diventò una strage.
La triangolazione ebbe la regia a Teheran che ordinò il piano per vendicare la mancata conclusione di accordo nucleare e si avvalse di squadristi agenti in America Latina, soprattutto in Argentina e in Paraguay, appoggiati da finte agenzie di viaggio che servivano da copertura per gli 007 sotto l’egida di Mohsen Rabbani, l’addetto culturale dell’ambasciata iraniana: o meglio, ufficialmente ricopriva quella posizione ma in realtà era un agente segreto decisivo per l’attuazione dell’attentato e nella ricerca del kamikaze.
Un episodio terribile contro gli ebrei che ha portato con sé anche un’altra morte: quella del magistrato Alberto Nisman, secondo cui la presidente argentina Cristina Fernández coprì il coinvolgimento dell’Iran nell’attentato contro l’AMIA.