Roma, Via Rasella, 23 marzo 1944: nelle prime ore del pomeriggio, un gruppo di appartenenti ai GAP (Gruppi di Azione Patriottica) attaccò in Via Rasella un reparto di soldati sudtirolesi del reggimento Bozen alle dipendenze delle SS. L’esplosione di una carica di tritolo al passaggio della formazione militare, seguita dal lancio di bombe e da una sparatoria, provocò la morte di 33 dei 156 militari. L’attentato, come verrà reso noto in seguito, fu un avvertimento della Resistenza italiana contro gli invasori tedeschi.
Come risposta all’azione, Hitler ordinò una terribile rappresaglia che venne così stabilita: per ogni tedesco ucciso, sarebbero stati fucilati dieci italiani. Durante la notte Herbert Kappler, comandante delle SS a Roma, assieme al capitano Erich Priebke, stilarono la lista dei condannati a morte, che il mattino successivo venne integrata con altri nominativi dal questore di Roma Pietro Caruso. In tutto vennero prelevati detenuti politici e comuni dalle carceri di Regina Coeli e di Via Tasso e altri uomini dalla strada: 335 uomini, 5 in più rispetto al numero stabilito. I cinque malcapitati in più nell’elenco furono trucidati con gli altri perché, se fossero tornati liberi, avrebbero potuto raccontare quello che era successo.
Trasportate in una cava in disuso sulla via Ardeatina, nel pomeriggio del 24 marzo le vittime vennero fatte inginocchiare con le mani legate dietro la schiena e trucidate, una dopo l’altra con un colpo di pistola alla nuca. I tedeschi, dopo aver compiuto il massacro, infierendo sulle vittime, fecero esplodere numerose mine per far crollare le cave ove si svolse il massacro e nascondere, o meglio rendere più difficoltosa, la scoperta di tale massacro. Sarà proprio Kappler che, quattro anni più tardi, racconterà, nel corso del processo a suo carico, la dinamica dell’eccidio.
Un trafiletto su Il Messaggero del giorno dopo notificò al mondo che il massacro si è compiuto.