La macchina giustificatoria al massacro di Hamas contro i civili israeliani del 7 ottobre è partita quasi subito. I “se” e i “ma” hanno preso il sopravvento sul trasporto emozionale, almeno per alcuni.
La mattanza ebraica anziché diventare capo di accusa per Hamas ha innescato il meccanismo antisemita, con cui si è tentato di scambiare le vittime e i carnefici, provando a contestualizzare e storicizzare l’azione terroristica.
Il tentativo di giustificare l’ingiustificabile, attingendo alle presunte e passate responsabilità israeliane, ha attecchito in chi ama far ricorso alla pregiudiziale antiebraica per difendere i terroristi di Hamas.
L’ingranaggio antisemita, poi, è stato oliato con la ricerca della riduzione numerica delle morti israeliane per mano dei tagliagola palestinesi. È seguito un piccolo grande inceppamento dopo le terribili notizie che arrivavano dai luoghi del crimine.
A quel punto, giustificare l’ingiustificabile era diventato un esercizio solo per gli ottusi. E quando gli antisemiti (ottusi) sono con le spalle al muro, il miglior modo per uscirne è far ricorso alla narrativa palestinese, il cui scopo finale è togliere Hamas dall’equazione del conflitto, facendo rimanere Israele e il povero popolo palestinese che da decenni (non) subisce genocidio: se l’avesse subito, sarebbe un popolo miracolato, riuscito in un’impresa leggendaria: aumentare e prosperare dopo una pulizia etnica settantennale.
Il teatrino antisemita, poi, è stato portato avanti da diversi attori, molti dei quali posizionati a sinistra della politica e della società civile i quali, pur di dare contro a Israele, hanno dimenticato che Hamas ha colpito una delle poche forme reali di socialismo che la storia contemporanea abbia conosciuto: il kibbutz.
I pochi che l’hanno fatto notare sono riusciti a colpire nel segno. Ma la storicità è un mezzo usato solo per demonizzare Israele e allora gli antisemiti (ottusi) hanno cercato di depotenziare le brutalità commesse da Hamas, adducendo l’assenza di prove dei crimini commessi da quei bravi ragazzi palestinesi per cui essere un bambino israeliano è una colpa da pagare con la morte, perché ritenuto una minaccia come fosse un soldato pronto a combattere.
Era l’unico modo per guardarsi allo specchio e provare a riconoscersi, perché per alcuni è brutto capire chi si è veramente.
E lì il demone Israele è venuto in soccorso a chi voleva attaccarsi alla propria identità pur avendola perduta.
Gerusalemme ha lanciato l’attacco contro la Striscia di Gaza per sconfiggere Hamas, il cui uso di abitazioni civili, scuole e ospedali come basi militari non è servito a guardare lo Stato ebraico con un occhio meno malevolo.
In quel momento i finti buonisti, i sinistri senza sinistra e gli odiatori seriali del popolo ebraico hanno giocato l’ultima carta possibile: la proporzionalità della reazione israeliana.
È la carta della disperazione, quella che si usa quando non si hanno altri argomenti, quando la letteratura palestinese antisemita è giunta al termine.
Chi ha chiesto e continua a chiedere proporzionalità, cosa risponderà se i termini della trattativa per il rilascio degli ostaggi israeliani venisse confermato: per riavere a casa 50 dei suoi figli, Israele è dovrà rimandare a Gaza 150 terroristi.
Il rapporto è uno a tre. Dov’è finita la proporzionalità tanto richiesta?