Spesso i palestinesi si riferiscono alla nascita dello Stato d’Israele con il termine Nakba, “catastrofe”. Alla Nakba si fa risalire anche lo status di rifugiato che ogni palestinese ha ottenuto dopo aver lasciato, sotto consiglio degli altri paesi arabi del Medio Oriente, la propria casa e che è ereditabile dalle generazioni successive secondo le norme dell’UNRWA, l’associazione per i rifugiati palestinesi creata appositamente dalle Nazioni Unite. Pochi però conoscono un’altra Nakba, quella ebraica, che viene commemorata il 30 novembre di ogni anno. Una data simbolica per ricordare gli 850.000 ebrei cacciati dalle proprie case nei paesi arabi subito dopo la Dichiarazione d’Indipendenza dello Stato d’Israele. Migliaia di anni di presenza ebraica in quelle terre, antecedente persino all’arrivo dell’Islam, cancellati in pochi anni in nome di un odio cieco.
Gli ebrei però preferiscono vivere il loro dolore privatamente, quasi in silenzio. Nessuna giornata internazionale del rifugiato ebreo, nessuna organizzazione estera che li celebra o che voglia costantemente ricordare al mondo la loro esistenza. Pochi ne scrivono o ne traggono importanti discussioni accademiche, nessuno di loro ha mai richiesto fondi internazionali o la garanzia di avere un posto certo nelle competizioni cinematografiche; dalle loro sofferenze nessun media ha prodotto un documentario di approfondimento, in molti casi non è stato pubblicizzato nemmeno quali sono state le loro attività per reinsediarsi nei paesi dove si sono trasferiti.
Sebbene parliamo di centinaia di miliardi di dollari persi in proprietà mobili e immobili, denaro di cui non si è mai chiesta una compensazione, la cosa più grave è che queste persone sono state costrette a lasciare una ricchissima cultura millenaria, un patrimonio che in molti casi ha contribuito a formare quegli stessi Stati arabi che alla fine li hanno rigettati.
Il loro riassorbimento in Israele è una delle grandi vittorie del sionismo. Oggi costituiscono quasi il 50% della popolazione israeliana. Questo però non cancella il fatto che è stata privata loro la possibilità di vivere le proprie tradizioni: trasferendosi in Israele hanno rinunciato a parlare la loro lingua madre, l’arabo, e hanno dovuto necessariamente accettare lo stile di vita occidentale israeliano. Recentemente per cercare di proteggere il loro patrimonio culturale sono state istituite alcune Commissioni parlamentari alla Knesset, organizzate conferenze culturali nelle maggiori università del paese e sono sorte collaborazioni con le comunità ebraiche di tutto il mondo per sensibilizzare i loro appartenenti sul tema.
Spesso quando si parla del conflitto fra israeliani e palestinesi si chiede per questi ultimi una giusta compensazione. Non è chiaro perché i profughi ebrei non abbiano diritto a ricevere lo stesso trattamento: una giusta compensazione per i profughi palestinesi, se ci sarà, dovrebbe essere accompagnata da una simile soluzione per tutti quegli ebrei costretti a scappare dalle persecuzioni e dai pogrom, solo così potremmo veramente dire di aver ristabilito la giustizia.