La Federazione Russa, lo sappiamo, è stata uno dei veri risolutori della questione del nucleare iraniano, anche all’interno delle trattative che hanno portato il P5+1 a definire, con Teheran, il JCPOA, Joint Comprehensive Plan of Action. Per Mosca, l’accordo sul nucleare espande l’economia e il rayonnement strategico di un alleato, l’Iran, che è necessario alla Russia sia nello scacchiere mediorientale sia nel complesso sistema dei prezzi petroliferi, per risolvere una questione di vita o di morte per i russi: l’aumento dei prezzi del greggio. Senza contare che, nel nuovo equilibrio determinatosi con la guerra in Siria, Mosca sostiene la repubblica sciita nella misura in cui gli USA sostengono l’Arabia Saudita e la Turchia.
Viene qui da ricordare che fu proprio l’Imam sciita libanese Mussa al Sadr, rapito a Roma, forse, da agenti libici, a decretare l’appartenenza degli alawiti siriani all’universo sciita vero e proprio. Ma la Russia, con cautela e attenzione, non prende parte nel contrasto tra Ryadh e Teheran, auspicando al contrario “una diminuzione della tensione tra i due Paesi” e sostenendo tutte le misure che possano ristabilire un qualche rapporto tra le due nazioni islamiche. E comunque, la Russa è un vero alleato per l’Iran?
Dal punto di vista della attuale guerra in Siria, Mosca sostiene militarmente Bashar el Assad che è uno strenuo alleato di Teheran. Il problema è però che la Federazione Russa non ha nessun interesse strategico ad aumentare le tensioni in Medio Oriente, che potrebbero causare un “effetto domino” pericolosissimo per gli interessi russi, il suo apparato militare e di intelligence. Soprattutto per il linkage, la connessione, tra l’Ucraina e le azioni russo-alawite in Siria. I costi delle azioni in Siria possono causare una diminuzione dell’impegno russo in un’altra area-chiave, l’Ucraina, mentre Kiev è essenziale per proteggere e gestire il sistema petrolifero-gaziero di Mosca che arriva al suo mercato primario, l’Europa.
Se quindi tutto il Grande Medio Oriente si incendia, tra crisi siriana, guerra degli Houthy sciiti in Yemen, destabilizzazione progressiva delle aree sciite interne al regno saudita, chiusura di fatto dei passaggi marittimi a sud di Suez, allora l’overstretching, l’eccesso di impegno militare russo, creerebbe seri problemi economici e strategici di difficilissima risoluzione, per Mosca.
La vera chiave di volta del sistema russo nell’area potrebbe essere invece Israele, posto al centro delle tensioni regionali, militarmente efficientissimo, distante sia da Teheran che da Riyadh, ormai estraneo alla geopolitica USA nell’area e capace di gestire una lunga guerra di attrito sia con gli sciiti che con i sunniti. E di minacciare ritorsioni del tutto credibili. Non si può fare una pace ma nemmeno una guerra, in tutto il Medio Oriente, senza creare una correlazione strategica con Gerusalemme. Lo sapevano benissimo i movimenti palestinesi degli anni ’70 e ’80, i sauditi, gli egiziani e, prima di Bashar, i siriani. La soluzione fu, allora, una lunga guerra a bassa intensità con l’uso del terrorismo palestinese contro obiettivi sia nello Stato Ebraico ma, soprattutto, nel territorio dei suoi alleati storici. Il terrorismo è una guerra povera, che distrugge il morale delle popolazioni “nemiche” ma non crea danni eccessivi alle strutture militari del Paese-obiettivo. Il caso dell’ISIS/Daesh è invece diverso: un jihad territoriale che è l’antefatto, così spera Al Baghdadi, degli stati sunniti islamici dopo che saranno destabilizzati e i governanti “takfiri”, apostati, saranno eliminati.
Oggi stiamo assistendo quindi, in Siria, ad una guerra vera e propria perché l’area, dopo il terrorismo di Al Qaeda e le nefaste “primavere arabe”, è priva di pesanti tutele strategiche esterne. Nemmeno Teheran, peraltro, vuole oggi una vera guerra ai suoi confini, dato che ha tutto l’interesse a sfruttare fino in fondo il nuovo clima economico e politico determinatosi, soprattutto con l’Europa, dopo la firma del Joint Comprehensive Plan. Si prospetta quindi una “guerra fredda regionale” tra sciiti e sunniti in Medio Oriente, dopo che sarà chiarito a quale sfera di influenza appartiene la Siria, o quello che ne resterà.
Ma come procede, oggi, la gestione dell’accordo del P5+1 con l’Iran, che è la chiave di volta di tutto l’attuale sistema mediorientale? Sul piano economico, il governo di Teheran ha stabilito alcuni settori produttivi nei quali l’interscambio Iran-Russia verrà potenziato. Saranno i fondi ritornati a Teheran e l’aumento degli interscambi con UE, USA, Russia e Cina a creare, secondo il pensiero della Guida Suprema Khamenei, i capitali per il definitivo decollo economico del Paese. I settori produttivi degli scambi Teheran-Mosca riguardano il nucleare, gli armamenti, il gas naturale e il petrolio, di cui si prevede una correlazione dei prezzi tra i prodotti russi e quelli di Teheran. Il triangolo geoeconomico previsto dall’Iran è quello con Mosca, con l’Iraq e con il Venezuela, mentre la Russia propone un coordinamento con l’OPEC, tutta l’OPEC, per procedere ad un accettabile aumento dei prezzi al barile.
Dopo la firma del JCPOA, Mosca e Teheran hanno peraltro deciso di aumentare il loro interscambio economico dagli 1,5 miliardi di Usd del 2013 ai ben 15 miliardi entro i prossimi cinque anni. Ovvero, la classe dirigente in Iran cerca di equilibrare e compensare l’apertura economica all’Occidente con una quasi equipollente espansione degli interscambi con Mosca. Peraltro, la Federazione Russa sta programmando anche una collaborazione con l’Arabia Saudita proprio per il settore nucleare, mentre già oggi sostiene, e ancor di più sosterrà in futuro, l’industria nucleare iraniana. La “linea” di Ali Akbar Velayati, stretto collaboratore del Rahbar Khamenei per la politica estera, definisce inoltre che il futuro della stabilizzazione dell’area che va dall’Asia Centrale al Maghreb e al Medio Oriente, passando per il Caucaso, sarà garantita stabilmente solo da un accordo a tre tra Cina, Russia e Iran.
L’Europa va oggi dall’inutile al ridicolo strategico, gli USA hanno fatto capire a tutti che se ne stanno andando dal Medio Oriente, non c’è in effetti una alternativa efficace a questo nuovo progetto geopolitico. Un accordo, quello previsto dal decisore iraniano, per estirpare il jihad, allargare l’area della Shangai Cooperation Organization, permettere alla Cina la securizzazione del suo grande progetto di nuova “Via della Seta”, la One Belt One Road che fu annunciata da Xi Jinping nell’Ottobre 2013. L’Europa, che si diletta ancora di “operazioni di pace” inutili e costose, quelle che mantengono ed aggravano i contrasti più che spegnerli, avrà un confine ad Est controllato da questo asse russo-cinese-iraniano. In questa nuova area l’Unione Europea non avrà nessuna voce in capitolo, mentre gli USA se ne stanno andando, dopo i disastri combinati, dal Medio Oriente per concentrarsi sul progetto di una nuova “guerra fredda” sul confine euro-russo.
Una strana sciocchezza strategica, utile forse per mantenere una qualche presa su quel vuoto geopolitico che è oggi l’UE ed evitare quella continuità territoriale, economica, militare che gli analisti russi, legati al progetto dell’Eurasia, propongono all’ormai insignificante Unione Europea.
L’Iran, nel 1991, ha poi apertamente violato le norme del Trattato di Non-Proliferazione, al quale aveva precedentemente aderito. Khomeini, appena arrivato al potere, dichiarò l’energia atomica “satanica”, ma poi si dovette ricredere. In mancanza di armi convenzionali evolute, di forze ben addestrate, di una presa efficace del regime sciita su buona parte della popolazione, l’unica soluzione è l’armamento nucleare, che era stato iniziato dallo Shah.
Intanto, nelle more dell’Implementation Day del 16 Gennaio 2016, ben 593 persone fisiche e aziende collegate al progetto iraniano di arricchimento dell’uranio sono state “perdonate” sia dagli USA che dalla UE; e tra queste figurano molte compagnie di trasporti iraniane, alcune banche, singoli esperti di tecnologie nucleari e molte aziende site fuori dalla repubblica sciita. La causa di ciò è nel rispetto, da parte di Teheran, dell’accordo parallelo al JCPOA sulla liberazione di quattro prigionieri detenuti nelle sue carceri. Il comportamento dell’Iran è qui quello che nella teoria matematica dei giochi si chiama “win-win”: si vince sempre qualunque sia la strategia di gioco.
Di fronte al rapido recupero, da parte di Teheran, di oltre 120 miliardi di Usd già congelati nelle banche estere, ogni calcolo di piccolo cabotaggio deve quindi essere abbandonato dal regime sciita. Questo significa che l’Iran avrà sempre più interesse a chiudere la partita siriana, previa rapida riduzione al nulla del califfato di Al Baghdadi, pericolo strategico massimo per Teheran, che si vedrebbe bloccato ogni canale con l’Iraq, la stessa Siria e, soprattutto, il Mediterraneo. E’ questo anche il problema della Cina, che non può chiudere la sua operazione di “Nuova Via della Seta” verso l’Europa senza eliminare l’ISIS/Daesh. Ed è anche il problema dello Stato Ebraico, che non ha nessun interesse a vedere, quasi ai propri confini, un jihad territoriale che potrebbe incendiare anche il radicalismo palestinese dentro e fuori Israele. D’altra parte, occorrerà osservare, nei prossimi mesi, se e quanto lo stato sciita avrà ancora bisogno degli Hezbollah libanesi al confine con Israele o se li utilizzerà, come oggi accade, per le sue proxy wars da gestire senza sporcarsi troppo le mani. E’ facile prevedere un futuro, per il “partito di Dio”, molto simile a quello dei Marines nordamericani, ed è molto probabile che saranno presenti in Asia Centrale, nelle zone a maggioranza sciita dell’Arabia Saudita, in Maghreb e, in futuro, perfino in Libia. E comunque, almeno il 35% dei nuovi fondi recuperati dopo la cessazione delle sanzioni servirà all’Iran per acquisire nuove armi, sia russe che cinesi, oltre a permettere lo spostamento geopolitico della sua minaccia nucleare dal territorio della repubblica sciita a quello di un alleato storico, la Corea del Nord.
Lo Yemen ospiterà una centrale nucleare iraniana, la Siria, dopo l’attuale disastro, cederà parti del suo territorio all’Iran per le sue operazioni nucleari-convenzionali, niente vieta che anche l’Iraq possa accettare la presenza di sistemi d’arma “proibiti” di Teheran sul suo territorio. Nuove armi, quindi, al posto del vecchio nucleare, che non permette una soglia ragionevole per il suo uso o per la credibilità di una minaccia. Il pensiero strategico iraniano attuale non è interessato al vecchio gioco, tipico della “guerra fredda”, della escalation nucleare che, come è tale, dissuade l’avversario. La dottrina attuale dei decisori di Teheran è quella di un armamento utile, realmente dissuasivo, utilizzabile nella realtà degli scontri regionali.
Viene in mente qui il vecchio manuale sovietico di strategia scritto dal generale Shaposhnikov, dove si definiva l’uso dell’arma nucleare in piena continuità con le armi convenzionali. Era solo un problema di utilità tattica. Dopo la firma del JCPOA, Teheran ha quindi scelto la minaccia credibile e immediata ad una vecchia geopolitica dello scontro nucleare che diviene impossibile tramite la progressiva parificazione degli arsenali. Detto tra parentesi, se la minaccia nucleare diviene possibile in continuità con uno scontro convenzionale, sarà bene, per i Decisori europei e italiani, ripensare molte delle clausole del vecchio TNP, Trattato di Non-Proliferazione nucleare, che Roma ha firmato nel 1970 e che ritiene, ancora, la “pietra angolare” della sua politica estera. La conferenza quinquennale del maggio 2015 sul riesame del Trattato si è poi conclusa con un nulla di fatto, mentre perfino l’Italia minacciò, nel 1998, di uscire dal TNP qualora le potenze legittimamente nucleari non avessero garantito la nostra sicurezza. Nessuno garantisce la sicurezza di nessuno, sarebbe bene ricordarselo, e già Machiavelli ricordava che sono “le armi proprie” a garantire “li stati” che, come amava ripetere, “non si tengono cum le parole”.
Inoltre, dopo la firma dell’accordo di non-proliferazione del P5+1 l’Iran diverrà potenza regionale legittima e quindi mediatore importante dei conflitti regionali futuri. E qui c’è da chiarire come e quanto potremo, in seguito, garantire la sicurezza d’Israele se accadesse una nuova guerra d’Agosto come quella che avvenne tra gli Hezbollah libanesi e le FF.AA di Gerusalemme nel 2006. Se cade lo Stato Ebraico tutto il jihad si unifica, vince definitivamente negli stati arabi detti ancora “moderati”, si avvicina pericolosamente, senza controllo alcuno, alle porte d’Europa. Come accadde l’11 settembre del 1683, quando la cavalleria polacca sconfisse gli ottomani a Kahlenberg, alle porte di Vienna. Oggi non ci sono più i cavalieri polacchi di Sobieski. Anzi, l’ideologia del multiculturalismo, della “sottomissione”, come l’ha chiamata nel suo romanzo lo scrittore francese Houllebecq, non permette più né la battaglia delle idee né la preparazione di quella reale.
Senza quindi un centro di gravità affidabile per noi in Medio Oriente, che spezzi la linea di continuità del jihad e permetta all’UE di rimanere sicura nei suoi confini, perché il terrorismo islamista può diventare guerra aperta, non ci sarà sicurezza né nel landmass europeo né nel Mediterraneo. Si può quindi pensare ad una nuova trattativa del “gruppo di contatto” P5+1 sul sistema missilistico iraniano, che permetta un limitato armamento convenzionale, si può inoltre pensare ad un freezing delle ambizioni nucleari dell’Arabia Saudita, per poi affidarsi ad un triangolo strategico tra Russia Cina e EU-NATO. Un triangolo che dovrebbe riequilibrare i potenziali strategici di Teheran, Riyadh, magari dello stesso Iraq e, quindi, tenga sotto controllo, per continuità territoriale, lo scontro atomico tra Pakistan e India.
Gli USA si sono concentrati, lo abbiamo detto, su una loro azione di regionalizzazione della Federazione Russa, che non è nell’interesse dell’Europa; e opereranno nell’Asia Centrale per controllare la proiezione di potenza cinese. Né l’Iran né la Cina ragionano sui tempi brevi, ma oggi l’Occidente, come accadeva prima della Prima Guerra Mondiale, sembra ubriaco di soluzioni rapide da vendere ai media, per puro maquillage geopolitico. Occorrerà quindi ripensare, in Italia e nel resto della EU, ad una politica meno ingenua e più attenta alle minacce vecchie e nuove, che stanno cambiando di forma e di posizione.